Ivana VERONESE: comunicato Stampa del 02/11/2020
Immigrazione, salute e pandemia da Covid-19
Immigrazione, salute e pandemia da Covid-19
02/11/2020  | Immigrazione.  

 

(da Dossier Statistico Immigrazione 2020) - A fine agosto 2020 la pandemia da Covid-19 ha provocato quasi 25 milioni di casi confermati e circa 850.000 morti. Sono 209 le nazioni al mondo con almeno un caso confermato (ad oggi sono senza infetti alcune isole dell’Oceania e altri territori particolarmente isolati). Picchi di contagio si sono registrati nelle Americhe (quasi 13 milioni di casi) e in Europa (oltre 4 milioni).

 

Gli Usa sono il primo paese al mondo per numero di casi (quasi 6 milioni), con il Brasile al secondo posto (circa 4 milioni). E poi India, Russia e tutti i paesi africani, con situazioni particolarmente gravi in Sud Africa (intorno a 650.000 casi) e nei paesi della costa del Maghreb. E questo in poco più di 8 mesi, da quando il 31 dicembre 2019 le autorità sanitarie cinesi hanno reso nota la presenza di un focolaio di sindrome febbrile associata a polmonite di origine sconosciuta tra gli abitanti di Wuhan.

 

Con una sintesi eccezionale papa Francesco è riuscito a descrivere ciò che stiamo vivendo: “La pandemia ha messo allo scoperto la difficile situazione dei poveri e la grande ineguaglianza che regna nel mondo. E il virus, mentre non fa eccezioni tra le persone, ha trovato nel suo cammino devastante, grandi disuguaglianze e discriminazioni. E le ha aumentate!”. Le disuguaglianze, non solo nell’ambito sociale ma anche nelle politiche, nell’organizzazione, nella visione del bene comune, sono causa del diffondersi della malattia ma sono anche effetto della pandemia.

 

Prima fase. Immigrati immuni: falso

 

L’Italia è stata da subito protagonista dell’epidemia e, seguendo l’esempio parziale della Cina, è stato il primo paese occidentale che ha chiesto ai suoi cittadini di restare a casa: il 31 gennaio veniva dichiarato lo stato d’emergenza e dal 9 marzo al 3 maggio imposto il cosiddetto lockdown. In quei momenti concitati, si diffonde la notizia che gli immigrati sono “immuni” all’infezione da Sars-Cov-2. Ad essere colpiti in quella fase drammatica erano prevalentemente gli anziani, in particolare quelli residenti in strutture d’accoglienza e d’assistenza, e gli operatori sanitari. L’assenza di immigrati ricoverati per Covid-19 in quel momento fa ipotizzare una prudente interpretazione, tutta da verificare, circa la presunta porta del virus che in alcune “etnie” sarebbe potuta essere chiusa o semichiusa.

 

Ma basta questo per scatenare i social che, senza alcuna prova scientifica, attribuiscono questa supposta immunità a terapie antimalariche piuttosto che alla vaccinazione antitubercolare maggiormente diffusa nel continente africano. Il tutto si autoalimenta con il mito della black immunity diffusosi anche negli Stati Uniti e rimbalzato in Italia; e che rinforza queste fake news smentite dai fatti, prima ancora che dal mondo scientifico. Negli Usa gli afroamericani sono colpiti più del doppio rispetto ai bianchi per effetto di strutturate disuguaglianze sociali.

 

Seconda fase. Immigrati come tutti, anzi no

 

I primi dati disponibili in Italia relativi all’impatto della pandemia sulla popolazione straniera sono stati presentati il 30 aprile 2020 in una delle conferenze stampa settimanali dell’Istituto Superiore di Sanità (Iss) e ripresi da un articolo di Quotidiano Sanità. Una sintetica rappresentazione della curva epidemica di Covid-19 tra gli stranieri, messa a confronto con quella degli italiani e relativa ad un periodo di circa 2 mesi (fine febbraio-fine aprile 2020) su dati della Sorveglianza integrata nazionale, mostra un chiaro spostamento in avanti nel tempo, di circa 8-10 giorni, della curva epidemica degli stranieri rispetto a quella degli italiani1.

 

L’interpretazione dei dati fornita in quella occasione ha evidenziato due fondamentali considerazioni. La prima è che la percentuale di casi all’epoca evidenziati tra gli stranieri (5,1% con 6.395 casi) è risultata essere nettamente più bassa della proporzione di stranieri presenti in Italia nello stesso periodo (8,7%); verosimilmente Sars-Cov-2 non ha colpito nella stessa misura le diverse comunità di stranieri: come, ad esempio, è stato evidenziato in un articolo online dell’Ismu2, il fatto che il numero di casi per ogni 1.000 residenti sia risultato marcatamente superiore nella comunità peruviana (8,1‰) rispetto al totale degli stranieri (1,2‰), prospetta una esposizione diversificata sulla base delle condizioni di vita e di lavoro. La seconda è che, a fronte di un minor numero di casi registrati, tra gli stranieri è risultato maggiore (1,4 volte più elevato) il rischio di ospedalizzazione (e quindi il livello di gravità clinica). La spiegazione maggiormente condivisa al riguardo è che gli stranieri vadano incontro ad un ritardo di diagnosi dovuto a un ricorso posticipato ai servizi sanitari.

 

Una conferma a tale maggiore esposizione di impatto clinico da parte degli stranieri, verosimilmente dovuta a un ritardo nelle cure erogate, è stata portata da un’ulteriore analisi dell’Iss relativa alle cartelle cliniche dei pazienti deceduti per Covid-19: la mortalità è risultata comparabile tra gli stranieri e gli italiani, tranne che per una più giovane età da parte dei primi.

 

Terza fase. Immigrati untori: falso

 

Mentre nella prima fase dell’epidemia l’attenzione pubblica non era stata indirizzata in modo negativo verso le popolazioni immigrate in Italia, intorno a fine luglio, a seguito dell’accertamento di un numero rilevante di infezioni in stranieri (tutti asintomatici) ospitati in un centro di accoglienza del trevigiano (129 su 315, pari a circa il 41% degli esaminati), il tentativo di far passare gli immigrati come untori ha ripreso slancio.

 

La situazione si è sostanzialmente ripetuta pochi giorni dopo in un centro di accoglienza ospitato nell’ex caserma Cavarzerani in provincia di Udine. In tale occasione, il vicepresidente dell’Asgi, Gianfranco Schiavone, profondo conoscitore di quella specifica realtà, ha efficacemente stigmatizzato il fatto che, ancora una volta, la situazione di allarme sanitario non fosse altro che l’inevitabile prodotto di una gestione totalmente inadeguata dell’accoglienza (collegata in quell’area all’abbandono della sua forma “diffusa” in piccoli centri) che, producendo ghetti, rischiava di presentare le vittime (cioè gli stranieri ammassati in quel centro senza tutela effettiva) come responsabili della diffusione dell’epidemia.

 

Ma tornando ai dati scientifici (gli unici che dovrebbero informare e alimentare il dibattito tecnico-scientifico e pubblico), se si analizza il numero e la percentuale di casi di Covid-19 diagnosticati in Italia per nazionalità e luogo di esposizione nell’ultimo aggiornamento nazionale disponibile (relativo al 21 agosto 2020)4, si osserva che, dopo la fase correlata al lockdown (che va all’incirca da metà marzo a metà giugno), in cui si è registrato un progressivo calo dei casi assoluti sia tra gli italiani che tra gli stranieri autoctoni, a partire dalla metà di giugno la quota percentuale di stranieri sul numero di casi totali è andata aumentando, per poi ricominciare a diminuire alla fine di luglio.

 

Nel frattempo, collegato alla ripristinata maggior mobilità dipendente sia dalle vacanze estive che dal rientro in Italia di stranieri, è aumentato il numero di casi importati, con una maggior quota riferibile agli italiani. In attesa di disporre di ulteriori dati, riportiamo l’affermazione del Presidente del Consiglio Superiore di Sanità, prof. Franco Locatelli, del 20 agosto: “il 25- 40% dei casi sono stati importati da concittadini tornati da viaggi o da stranieri residenti in Italia. Il contributo dei migranti, intesi come persone che fuggono da condizioni disperate, è minimale, non oltre il 3-5% sono positivi e una parte si infetta nei centri d’accoglienza (in particolare hotspot, ndr) dove è più difficile mantenere le misure sanitarie adeguate”5.

 

Un recente studio dell’Inmp (Istituto Nazionale per la promozione della salute delle popolazioni Migranti e per il contrasto delle malattie della Povertà) fotografa la situazione della diffusione del virus in 5.038 strutture6, con una copertura pari al 73,7% sulle 6.837 censite dal Ministero dell’Interno: su 59.648 immigrati accolti dall’11 maggio 2020 al 12 giugno 2020, sono stati confermati 239 positivi al Covid-19, solo lo 0,4%. È stato anche valutato il cosiddetto “indice di saturazione” della possibilità di accoglienza della struttura (numero di ospiti sul numero dei posti letto), per valutare il ruolo dell’affollamento come fattore di incremento di rischio di infezione: mentre la media regionale dell’indice di saturazione calcolato tra i centri nei quali non è stato osservato alcun caso positivo è pari al 78,6%, lo stesso indice calcolato sui centri nei quali è stato osservato almeno un caso positivo è pari all’87,7%.

 

Per i centri in cui vi è libertà di movimento, la mobilità con l’esterno rappresenta l’elemento principale di rischio per l’esposizione e il contagio, mentre le attività routinarie collettive (utilizzo dei servizi igienici, consumazione dei pasti nelle sale comuni, attività ricreative, ecc.) possono rappresentare l’elemento di rischio principale per la diffusione. Per tale motivo, fin dalle prime settimane di sviluppo della pandemia, un nutrito gruppo di associazioni riunite nel Tavolo Nazionale Asilo e nel Tavolo Immigrazione e Salute (Tis) ha chiesto con insistenza che venissero sviluppate e diffuse delle indicazioni nazionali con percorsi, procedure ed elementi di governance per garantire un’accoglienza in sicurezza. Solo a fine luglio è uscito un primo documento, che però non soddisfa appieno le esigenze di sicurezza.

 

Non possiamo qui prevedere quale sarà il successivo andamento di queste dinamiche, ma è di tutta evidenza che sia necessario non abbandonare, quanto aumentare, gli interventi di sanità pubblica (in termini di precoci accertamenti dell’eventuale stato di infezione e di idonee misure di prevenzione), non disgiunti però da efficaci misure di protezione sociale.

 

Immigrazione e salute globale

 

“Covid ha reso noto il significato più profondo di salute globale, non solo mostrando una propagazione che segue le rotte degli scambi umani, ma anche evidenziando il legame che la salute ha con le altre dimensioni del nostro vivere, come economia, lavoro, ambiente. E di fronte a questo scenario, ci ha reso tutti vulnerabili. Fragili di fronte alla possibilità di malattia”7. Questo è l’incipit di un interessante editoriale scritto da don Dante Carraro, direttore di Medici con l’Africa Cuamm, nella rivista della sua organizzazione. Le migrazioni sono anch’esse una declinazione specifica dell’approccio alla salute in modo globale, con l’attenzione a tutti quei determinanti – prossimali, intermedi e distali – che costruiscono disagio sociale e malattia; e alle interconnessioni sempre più strette degli esseri umani con l’ambiente, con lo sviluppo, con la pace. Per cui, ridurre il tema della salute dei migranti ad una sterile operazione matematica è assolutamente riduttivo, fuorviante, fuori dalla storia e, forse, anche pericoloso.

 

Adottare politiche internazionali, nazionali e locali, comportamenti collettivi ed individuali per rafforzare il capitale umano di tutti e di ciascuno, per aumentare la coesione sociale, per non lasciare indietro nessuno è l’unico modo per uscire da questa crisi e perché questa diventi occasione reale di cambiamento in una prospettiva di giustizia e salute per tutti.