Ivana VERONESE: comunicato Stampa del 06/11/2020
L’impatto della pandemia su migranti e rifugiati
L’impatto della pandemia su migranti e rifugiati
06/11/2020  | Immigrazione.  

 

La pandemia pesa molto sulla vita e sul lavoro dei cittadini in Italia, autoctoni o stranieri che siano. Ma, sul fronte economico e sociale, il Covid 19 sta già producendo effetti variegati e differenziati a seconda delle situazioni personali e dei contesti sociali su cui si va ad immettere. Con effetti anche drastici sul lavoro e sulla vita delle persone, specialmente dei cittadini stranieri. La UIL vuole approfondire questa tematica confrontandosi nell’ambito del Coordinamento Nazionale Immigrazione, il prossimo 17 novembre.  

 

Un contributo al dibattito

 

(redazionale) La pandemia di Covid-19 e le sue ricadute economiche colpiscono sensibilmente migrazioni e processi di integrazione, a cominciare da una forte diminuzione della mobilità internazionale– soprattutto a causa del contagio, ma non solo – e dai maggiori rischi per le persone che non possono accedere allo smart working e che sono costrette a lavorare in condizioni potenzialmente pericolose per la propria salute. Nel 2019, quindi prima dell'emergenza sanitaria, i flussi migratori nell’Ocse contavano 5,3 milioni di arrivi, in linea con i due anni precedenti. Erano calati gli arrivi di rifugiati, ma le migrazioni per lavoro non temporaneo erano salite oltre del 13% e anche quelle per lavoro temporaneo erano aumentate, con oltre 5 milioni di ingressi. Allo scoppio della pandemia, quasi tutti i paesi Ocse hanno imposto restrizioni ai viaggi da e per l’estero.  II risultato è che nella prima metà del 2020 il rilascio di visti e dei permessi nei Paesi Ocse è crollato del 46% rispetto allo stesso periodo del 2019. Nel secondo trimestre, il calo è arrivato al 72%. Calo mai registrato in precedenza. Quest’anno si preannuncia quindi record per il basso livello di migrazioni nell’area Ocse. Secondo i ricercatori, non si tornerà facilmente indietro: la bassa domanda di lavoro, le restrizioni, l’uso del lavoro a distanza tra lavoratori qualificati e dell’apprendimento a distanza tra studenti manterranno bassa la mobilità. 

 

Stessa situazione anche in Italia.

 

Conseguenze simili sui flussi migratori si sono rilevate anche per il nostro Paese. Nei primi sei mesi del 2019 erano stati rilasciati oltre 100 mila nuovi permessi di soggiorno mentre nello stesso periodo del 2020 ne sono stati registrati meno di 43 mila, con una diminuzione del 57,7%. I mesi che hanno fatto registrare la contrazione maggiore sono aprile e maggio (rispettivamente -93,4% e -86,7%), tuttavia già a gennaio e febbraio il calo dei nuovi ingressi aveva sfiorato il 20% in entrambi i mesi: un dato in linea con la tendenza alla diminuzione avviatasi dal 2018. Lo ha reso noto l'Istat diffondendo il Report "Cittadini non comunitari in Italia" per gli anni 2019-2020. I dati provvisori riferiti ai primi sei mesi del 2020 mostrano una contrazione del 63,6% dei permessi per ricongiungimento familiare, mentre quelli per richiesta d’asilo sono diminuiti del 55,5%. Anche se meno consistente in termini assoluti, va poi sottolineato il calo degli ingressi per lavoro stagionale, su cui ha pesato molto la chiusura delle frontiere; la diminuzione in questo caso è stata del 65,1%: da 2.158 nuovi permessi per tale motivazione nei primi sei mesi del 2019 a 753 nel primo semestre di quest'anno.

 

L'Istat sottolinea che per il 2020 si tratta comunque di un bilancio provvisorio e che per una valutazione complessiva dell'impatto della pandemia di Covid-19 sui nuovi flussi di ingresso e sulla presenza di cittadini non comunitari sarà necessario attendere la fine dell'anno 2020. Rispetto alla presenza, in particolare, andranno valutati gli effetti della procedura di emersione dei rapporti di lavoro, avviata il 1° giugno ai sensi dell'articolo 103, comma 1, del decreto-legge n. 34 del 19 maggio 2020, che ha portato alla registrazione, in base ai dati diffusi dal Ministero dell'Interno, di oltre 220 mila domande, anche se in gran parte la maggioranza delle domande sono state avanzate per l’emersione dal lavoro sommerso di cittadini italiani e comunitari.

 

Covid, un impatto a 360 gradi

 

La pandemia di Covid-19se dal punto di vista sanitario sembra essere un rischio potenziale per tutti (anche se poi l’accesso alle cure appare non sempre equo), sul fronte economico e sociale sta già producendo effetti variegati e differenziati a seconda delle situazioni personali e dei contesti sociali su cui si va ad immettere.  Il Covid sta danneggiando le economie di tutto il mondo, Europa compresa e sta producendo pesanti perdite di posti di lavoro ed un peggioramento delle condizioni di vita nella popolazione. Questo non può non avere conseguenze sull'opinione pubblica riguardo alle politiche migratorie. Non dimentichiamo che i migranti sono opportunisticamente considerati una risorsa, spesso solo quando funzionali alle economie, compresa quella sommersa.  C’è chi non ha mancato di fare campagne denigratorie nei confronti dei migranti, indicandoli come potenziali "untori". E questo malgrado i dati dimostrino che la percentuale di positivi al contagio tra gli stranieri non è poi diversa da quella degli italiani.  Questa premessa per dire che non siamo nella stessa società di un anno fa e che lo Tsunami che investe le nostre vite cambia e cambierà molto in termini economici, sociali e di costume. Gli effetti olistici della pandemia non sono stati previsti da nessuno. Come in passato, però epidemie di questa portata possono destabilizzare economie e società, cambiando modelli di sviluppo, costumi ed organizzazione della società stessa. E sarebbe bastato guardare alla storia ed alle epidemie della "Spagnola" ed "Asiatica" per notare preoccupanti similitudini.  Attualmente le valutazioni dell’impatto del Covid, ancora provvisorie, sono della probabile perdita – solo per l’Italia - di almeno un milione di posti di lavoro; la pandemia ci costringe a cambiare il modo di lavorare e di rapportarci agli altri (smart working) e soprattutto non colpisce tutti allo stesso modo.  Secondo l’OCSE, la crisi prodotta dal Covid 19 potrebbe avere un “impatto sproporzionato sui migranti e le loro famiglie”. Un recente studio portato avanti da questo organismo a livello mondiale considera la probabilità che la pandemia possa avere “pesanti effetti in termini di salute, lavoro, educazione, formazione linguistica ed altre misure di integrazione”, nonché naturalmente sull’opinione pubblica. Intanto è certo che questa emergenza sanitaria abbia avuto immediati effetti sulla mobilità delle persone.

 

Migranti e pandemia

 

I lavoratori migranti sono stati in prima linea durante la crisi. Rappresentano una quota importante nelle professioni sanitarie nell’Ocse: lo sono un medico su 4 e un infermiere su 6. In molti Paesi Ocse, oltre un terzo della forza lavoro in altri settori chiave, come agricoltura, trasporti, pulizie, industria alimentare e lavoro domestico, è rappresentato da migranti.   Anche in Italia l’emergenza sanitaria sta già producendo pesanti effetti, su autoctoni e non. Secondo il Dossier Statistico Immigrazione di Idos, per la prima volta dopo decenni il numero di stranieri residenti nel 2019 è diminuito in termini assoluti (-100 mila unità circa, rispetto alo 2018) dopo tre decenni di crescita ininterrotta che aveva visto aumentare dal 2012 al 2018 il numero di stranieri residenti di circa un milione di unità. E questo alla vigilia della pandemia. Non c’è dubbio che il 2020 vedrà un’ulteriore diminuzione di stranieri, e questo malgrado gli arrivi dal Mare Mediterraneo o dalla rotta balcanica. 

 

Ancora: i migranti affrontano tempi duri nel mercato del lavoro. Molti dei progressi degli scorsi anni sui tassi di occupazione dei migranti sono stati cancellati dalla pandemia. In tutti i Paesi che hanno reso disponibili i dati, la disoccupazione è cresciuta tra i migranti più che tra i nativi. Gli incrementi maggiori si sono registrati in Canada, Norvegia Spagna, Svezia e Stati Uniti. Secondo l’Ocse, in Svezia, quasi il 60% dell’incremento iniziale della disoccupazione ha colpito i migranti. Negli Stati Uniti, la disoccupazione tra i migranti era inferiore di un punto percentuale rispetto a quella tra i nativi prima della pandemia, ora la supera di due punti.   In Italia, vista la precarietà dei rapporti di lavoro, l’impatto del Covid sui cittadini stranieri è stato particolarmente pesante, per una serie di ragioni, che proviamo ad elencare:  

 

a. Perché gli stranieri lavorano nei settori in cui non è possibile svolgere la propria funzione da remoto (smart working). Parliamo dell’agricoltura, il commercio, i servizi alla persona, lavoro domestico, trasporti, edilizia, ecc.  

 

b. Perché le funzioni svolte dai migranti sono di per sé maggiormente pesanti ed esposte a rischi per la salute; 

 

c. Perché i loro contratti di lavoro, spesso precari e di breve durata, rendono maggiormente difficile per loro l’accesso agli ammortizzatori sociali nei momenti di crisi; 

 

d. Perché la maggiore precarietà prodotta dalla pandemia li rende più deboli nella legittima richiesta di condizioni contrattuali e lavorative dignitose; 

 

e. Perché la forte presenza di stranieri nell’economia sommersa produce assieme ad una assenza di diritti, anche un maggior rischio di contagio e di minaccia alla salute; 

 

f. Ci sono poi le condizioni abitative, che non sempre permettono a migranti e rifugiati le protezioni ed il distanziamento sociale necessario a garantire sicurezza sanitaria.  

 

g. L’accesso dei minori stranieri all’istruzione è reso più difficile dalla scarsa disponibilità delle attrezzature informatiche necessarie per le lezioni a distanza; 

 

h. La difficoltà nell’accedere alle amministrazioni pubbliche ha aumentato i problemi relativi alla documentazione di soggiorno e particolarmente sul fronte dei ricongiungimenti familiari, resi ardui dai problemi di accesso ai consolati italiani nei paesi d’origine ed il quasi blocco della mobilità internazionale.

 

I migranti, dunque, sono altamente esposti all’impatto della pandemia sulla salute, perché lavorano in prima linea, ma anche per altre vulnerabilità connesse, come le condizioni di alloggio e la maggiore povertà. Studi in diversi paesi Ocse hanno scoperto un rischio di infezione almeno doppio rispetto a quello dei nativi.  

 

Durante l’emergenza è stato registrato un aumento del 15-20 per cento di stranieri sfruttati nelle campagne, che corrisponde a 40-45mila persone, un peggioramento delle condizioni lavorative, un incremento sia dell’orario di lavoro (tra 8 e 15 ore giornaliere) sia del numero di ore lavorate e non registrate (20 per cento) e un peggioramento della retribuzione. Tutti effetti “dell’intreccio perverso tra la pandemia e il sistema dello sfruttamento dei migranti”, come ha scritto recentemente il rapporto Idos sull’immigrazione. A questo si è aggiunto “l’aumento esponenziale dell’arrendevolezza” dovuto al clima emergenziale che ha spinto molti migranti sfruttati “a considerare se stessi come secondari rispetto ai destini degli italiani” e quindi a rinunciare spesso alle loro rivendicazioni per degli standard di sicurezza.

 

Una nuova sfida per il sindacato

 

Per Cgil, Cisl, Uil si pongono dunque ulteriori sfide legate alle diverse condizioni lavorative, abitative e di accesso ai servizi che gli stranieri hanno in Italia, rispetto ai loro colleghi autoctoni; ed alla conseguente necessità di dare risposte adeguate ad evitare maggiori rischi di contagio ed esposizione ad ulteriori condizioni di sfruttamento.  Questo naturalmente non significa sottovalutare i problemi che la pandemia pone ai cittadini italiani, a cui il sindacato dedica sempre la propria azione di tutela; vuol dire soltanto che la particolare condizione dei cittadini stranieri necessita di particolare approfondimento e risposte.

 

I decreti sicurezza, recentemente corretti dal D.L. 130/2020 – con l’abolizione della protezione umanitaria – avevano prodotto l’espulsione dai centri di accoglienza di decine di migliaia di persone, finite in mezzo alla strada o costrette a vivere in tuguri improvvisti ed edifici occupati, in condizioni di sovraffollamento ed estrema insicurezza sanitaria. Con lo scoppiare della pandemia questi rischi alla salute sono aumentati per loro stessi e per gli altri. 

 

Fin dall’inizio della emergenza pandemica Cgil, Cisl, Uil hanno elaborato una serie di proposte volte a rispondere ai particolari bisogni che l’emergenza stessa poneva ai cittadini stranieri: sul piano della difesa del posto di lavoro (blocco dei licenziamenti) e dell’accesso agli ammortizzatori sociali (massima estensione a tutti i lavoratori); sugli adempimenti necessari a confermare il loro status legale (estensione della durata dei permessi), ed in generale sul rispetto dei diritti contrattuali.

 

In primo luogo, naturalmente, la lotta al lavoro nero e precario che, oltre a privare i lavoratori dei propri diritti, rende oggettivamente più a rischio la loro salute. Si è cercato di intervenire anche sul piano delle difficoltà connesse alla mobilità internazionale chiedendo al Ministero degli Esteri di intervenire – tramite le ambasciate – per facilitare il ritorno in Italia di stranieri bloccati all’estero o sveltire le pratiche connesse al ricongiungimento familiare. L’obiettivo è tutelare i diritti contrattuali e le condizioni di lavoro e di vita di tutti i lavoratori, immigrati compresi, dando risposta ai problemi che la pandemia, e non solo, rischia di relegarli in una condizione di marginalità sociale; ancora più difficile di quella già molto critica che vivono oggi i cittadini e lavoratori italiani.