Ivana VERONESE: comunicato Stampa del 01/04/2021
Sanatoria fallita, così i lavoratori stranieri restano invisibili
Sanatoria fallita, così i lavoratori stranieri restano invisibili
01/04/2021  | Immigrazione.  

 

Manca personale negli uffici, assunzioni a rilento. Solo il 5% delle domande sono arrivate in fondo. In Italia sono tra i 600 e i 650 mila gli irregolari, privi di diritti e di attenzione sanitaria

 

Di Goffredo Buccini, Corriere della Sera

 

Più che un flop, è una sconfitta per tutti. Più che motivo di ironia d’una fazione contro l’altra, dovrebbe essere ragione di preoccupazione collettiva, specie nell’Italia di oggi, attesa da stress test importanti per la macchina della sua pubblica amministrazione dopo la pandemia. Com’era prevedibile sin dall’inizio assai faticoso, ha suscitato scherno tra gli avversari politici, e soprattutto in quella destra sovranista che più l’aveva osteggiata, il fallimento della sanatoria per i lavoratori stranieri irregolari. Il provvedimento era stato fortemente voluto tra la primavera e l’estate 2020 dall’allora titolare dell’Agricoltura, la renziana Teresa Bellanova. Alcuni hanno esultato come di fronte a una significativa vittoria della propria parte. Altri si sono spinti a dileggiare le lacrime di commozione sfuggite alla ministra, con un passato da bracciante, nel dare l’annuncio del «suo» provvedimento lo scorso maggio: «Da oggi gli invisibili saranno meno invisibili». Non è andata come sperava la Bellanova.

 

Nato da una logica di compromesso in una coalizione assai contraddittoria sul tema delle migrazioni, e dunque con l’avvertenza di non definirlo per ciò che era (una sanatoria), il provvedimento conteneva limiti troppo stretti ed escludeva categorie assai importanti, come gli edili. Pensato in buona parte per i lavoratori dei campi (e giustificato proprio dalla carenza di braccia causata dal Covid-19) ha finito per rivolgersi soprattutto a colf e badanti. E, anche in questo caso, non ha centrato l’obiettivo.

 

I dati sono impietosi. Fa testo un’interrogazione parlamentare del deputato Riccardo Magi del 9 marzo, sulla base della campagna «Ero straniero», secondo cui il numero delle domande finalizzate a sei mesi dalla chiusura dei termini era inferiore all’1% di quelle presentate. Al 31 dicembre 2020, a fronte di 207 mila domande inoltrate dal datore di lavoro per fare emergere un rapporto irregolare o istaurarne uno nuovo con un cittadino straniero, erano stati rilasciati appena 1.480 permessi di soggiorno dalle questure in tutta Italia. Al 16 febbraio, il 5% delle domande era nella fase conclusiva della procedura e il 6% in quella precedente (convocazione in prefettura di datore di lavoro e lavoratore per la firma del contratto): in 40 prefetture le convocazioni non erano nemmeno iniziate. Non che mancasse, per carità, una previsione normativa di supporto: conoscendo le voragini di organico in questure e prefetture, e valutando il nuovo carico di lavoro, l’articolo 103 del decreto-legge 34 del 2020, indicava i fondi per assumere personale e adeguare gli strumenti informatici (fino a 30 milioni per il 2021).

 

All’interrogazione di Magi, che si concludeva con la canonica domanda «che fare?», il ministero dell’Interno ha dato una risposta su cui sarà opportuno meditare. In sintesi: si spiega che «rallentamenti nella trattazione delle istanze» sono dovuti «ad adempimenti procedurali, che investono le competenze intrecciate di più amministrazioni (prefettura, questura, ispettorato del lavoro, Inps), articolandosi in complesse fasi sub-procedimentali...» (sic) e, alla pandemia che tutto frena; per uscire dall’incastro, si è pensato di far ricorso a «lavoro a termine» tramite un’agenzia di somministrazione, sin dal 29 maggio 2020; naturalmente sono occorse un’indagine di mercato e una procedura negoziata via Consip; si aggiungano tre mesi (!) tra gara aggiudicata e firma del contratto, la selezione di 800 addetti su ventimila candidati, la necessità di stipularne i contratti individuali e di indirizzarli infine, quali assistenti amministrativi, agli Sportelli unici per l’Immigrazione, «in misura proporzionale alle istanze di emersione pervenute». Quindi, «si confida» che entro questo mese gli 800 assistenti comincino a dare una mano: in soldoni, si arriva ad aprile e sarà passato quasi un anno tra il decreto e l’inizio della sua attuazione.

 

Questa storia si può leggere in due modi. Dal punto di vista di chi si occupa di migrazioni, è una sconfitta perché in Italia sono tra i 600 e i 650 mila gli invisibili, privi di diritti e soprattutto di attenzione sanitaria in tempi di pandemia; è una consolazione parziale, perché comunque 207 mila invisibili sono emersi da questa platea e la ricevuta della domanda di emersione fa titolo per l’assunzione; ed è un suggerimento (magari anche al neosegretario del Pd) per superare la deriva delle sanatorie: tenere aperta su base individuale una procedura sempre accessibile di regolarizzazione per gli stranieri già radicati, senza precedenti penali e con lavoro disponibile sul nostro territorio.

 

Ma, da un punto di vista più generale, la vicenda ci rivela che non le (pur vistose) contraddizioni a monte hanno affossato il provvedimento, ma una malattia che corrode la cinghia di trasmissione di qualsiasi provvedimento all’interno della nostra vita pubblica. Negli uffici il personale o è mancante o è pletorico, chi va in pensione (anche a causa di quota 100) non viene sostituito (la filiera di regolarizzazioni dei migranti in una cittadina in provincia di Latina, ad esempio, è andata in tilt per il pensionamento dell’unico ispettore e da agosto tutto s’è fermato). La pubblica amministrazione è in ginocchio e il lavoro agile s’è tradotto in qualcosa di troppo vago per essere funzionale alle istanze del cittadino. Qualsiasi provvedimento del decisore politico sconta una distanza assai importante con la sua concreta attuazione: perché, a fronte di una società sempre più complessa e di palizzate corporative sempre più alte, si è inceppata la macchina che deve calarlo nella realtà, renderlo pulsante nel nostro quotidiano.

 

Andare dritti al punto con i sindacati per un patto sul lavoro pubblico è stata una prima buona mossa del premier Draghi e del ministro Brunetta. Ma la strada dell’inferno è lastricata di protocolli sul pubblico impiego: e la campana non suona per la sanatoria della Bellanova, ma per tutti noi.