Antonio FOCCILLO: comunicato Stampa del 03/11/2017
Democrazia e rappresentanza
Democrazia e rappresentanza
03/11/2017  | Pubblico_Impiego.  

 

di Antonio Foccillo

 

Gli antichi filosofi, quando gli veniva all’improvviso una riflessione sull’esistenza, si fermavano dovunque fossero, anche in mezzo alla strada, ed elaboravano giornate intere un loro pensiero. Oggi, come allora, dovremmo fermarci e riflettere proprio su dove va la società e su quali valori dovremmo rilanciare. Non possiamo assistere imperturbabili agli eventi.

 

Le crisi, economiche e valoriali, hanno trasformato profondamente la società. La crisi economica, infatti, non è solo crisi finanziaria ma anche morale. Mancanza di etica, ricerca del profitto a tutti i costi, individualismo esasperato, disinteresse verso gli altri della società, arricchirsi individualmente in ogni modo. Questi sono i nuovi ideali dominanti. In tale contesto che delinea una nuova etica socio-politica, bisogna riprendere l’azione per la tolleranza, il dialogo, il pluralismo delle idee, i diritti, la legalità. La minaccia di isolamento grava ancora di più sulla vita sociale degli uomini, insieme alla sensazione che non vi sia alcun legame tra ciò che si fa e il destino che ci attende, avendo perso il senso di condividere un mondo.

 

Invece, la convivenza civile è fatta di coesione, di rispetto dei valori e delle idee altrui come pure di solidarietà. Quella solidarietà che ha caratterizzato il Dna del sociale, la legislazione sociale e il diritto del lavoro che ne offre le coordinate normative. Essa appartiene da tempo alla cultura giuridica europea che ha avvertito come né solidarietà né coesione sociale possono praticarsi, ove non siano sorrette da un modello di società radicato in una piattaforma robusta di diritti fondamentali e su criteri di convergenza sociale. Purtroppo oggi nei rapporti sociali e civili prevale l’intolleranza, che, comunque si manifesti, non è accettabile e nel nostro Paese c’è e si vede in molte forme. Se prevalesse questo sentimento, la conseguenza sarebbe un peggioramento complessivo della qualità della vita, in modo particolare perché sarebbe scardinato il sistema di solidarietà. Inoltre la crisi della legislazione nazionale, la logica del mercato, il dominio delle multinazionali, la svalutazione sociale del lavoro potrebbero convincere dell’impossibilità di migliorare la legislazione del lavoro e soprattutto la qualità della vita.

 

Lo stesso concetto di rappresentanza si è modificato, modificando anche il ruolo dei vari soggetti, esclusi dalle decisioni politiche ed economiche, poiché non più ritenuti portatori di interessi diffusi, ma vere e proprie palle al piede che frenano le scelte per le decisioni dell’uomo solo al comando. Ciò ha influito sul grado di democrazia in atto proprio alla luce dei profondi cambiamenti avvenuti nelle forme di rappresentanza.

 

In effetti, vi sono allarmanti sintomi che preconizzano una vera e propria crisi della democrazia: la scarsa partecipazione alla vita pubblica e politica dei cittadini; il rientro al privato ed una crescente sfiducia nella classe politica; una tendenziale e percepita perdita di quei valori che accomunano una società; la perdita finanche delle regole pacifiche della convivenza sociale e di una educazione politica che induceva i consociati a sentirsi parte di una nazione, corpo di una società e, infine, non da ultimo, la crisi dell’economia che fatica a trovare il suo regime di crescita in una società in cui il lavoro umano è considerato un’attività sempre meno indispensabile.

 

Le regole classiche della democrazia, invece, che esigono: il dialogo; la consultazione; l’accordo dentro e con le minoranze; il riconoscimento e la tutela effettiva dei diritti umani che spettano, indipendentemente dalla nazionalità e dalla cittadinanza, a ogni individuo; l’allineamento alle libertà storiche delle democrazie, cioè ai diritti civili e politici; i sopravvenuti diritti sociali e i sopravvenienti diritti culturali possono giovare a cercare una risultante pacifica e ordinata delle attuali società.

 

Mentre la stessa opinione pubblica, e quindi la coscienza civile, presa da problemi quotidiani e da interessi individuali, succube del particolare, guarda con indifferenza e insofferenza a questi problemi, considerati generali, estranei dalla loro sfera di interessi.

 

Così si è trasformata anche la cultura dominante, non più interessata a battaglie per rendere la società più giusta, più coesa e solidale e, pertanto, parole come globalizzazione, deregulation, mercato, competizione sono diventati slogan che hanno fatto da schermo ideologico alla delocalizzazione di gran parte dell’apparato produttivo, alla marginalizzazione dello Stato, della politica e del ruolo del “cittadino”.

 

Oggi però le nostre società, proprio per l’assenza di partecipazione democratica, vivono una realtà quotidiana in cui si è prodotto: distruzione di ricchezza, impoverimento, attacco al mondo del lavoro, tensioni sociali, crisi del debito, rischio di implosione dello spazio europeo. In Italia, un Paese in cui “le disuguaglianze sono divenute ormai insopportabili”, abbiamo vissuto una regressione politica e culturale molto forte in materia di diritti e il dilatarsi della distanza tra ceto politico e società. È fondamentale ristabilire le connessioni della società alle istituzioni, perché in assenza di quest’ultime la convivenza civile viene meno e la comunità politica si sfalda. La constatazione di una progressiva riduzione delle funzioni dello Stato porta ad ipotizzare che con la fine del modello democratico, l’Occidente abbia chiuso anche la sua fase storica. In aggiunta, l’inadeguatezza della cultura giuridica rispetto ai mutati scenari della società e dell’economia degli ultimi decenni sta mettendo in discussione le categorie politiche e giuridiche fino ad oggi consolidate, perché la perdita del punto di riferimento statuale mette nell’impossibilità di ricostruire l’ordinamento giuridico come sistema.

 

Bisogna quindi rimettere in discussione quei contesti che favoriscono le grandi caste estranee alla politica e al confronto democratico, che nessuno ha eletto e che, di fatto, governano al di sopra e contro la politica. A costoro che non rispondono ai cittadini, non si possono delegare decisioni che devono essere prese nell’interesse di tutti. Le stesse relazioni sociali sono state, sono e saranno naturalmente compenetrate dal potere, come tendenza dell’uomo al dominio sull’altro, e proprio per questo la politica dovrebbe controllare e trasformare il potere in istituzioni e in diritto, altrimenti esso trova altri spazi e altri strumenti per imporsi.

 

Non è da nascondere che per dominare gli eccessi del mercato e della politica bisogna anche agire educando le persone a cambiare le proprie abitudini, salvaguardando innanzitutto la propria libertà ed esercitando le più ampie capacità critiche, fondamentali in un sistema perverso, pubblicitario e informativo che spesso altera la stessa formazione dell’opinione pubblica e il sistema di controllo popolare, incidendo negativamente sulla cultura di massa. In gioco sono la funzione delle regole e il comportamento democratico delle istituzioni, la speranza di legalità della politica e nella politica, con sempre maggiore difficoltà di controllo delle operazioni politicamente rilevanti.

 

Etienne Balibar sostiene che stiamo vivendo una rivoluzione dall’alto che mira a delineare un nuovo assetto istituzionale con la democrazia, relegando l’alternativa ai margini dell’agire politico. Questa rivoluzione dall’alto si sostanzia nella neutralizzazione della democrazia parlamentare, nei controlli sul bilancio e sulla fiscalità da parte dell’Unione Europea, nella cura estrema degli interessi bancari in nome dell’ortodossia neo-liberista.

 

Combinare, invece, l’integrazione dei mercati con la democrazia richiede la creazione di istituzioni politiche sovranazionali che siano rappresentative e responsabili. Potremmo concludere dicendo che non si possono avere globalizzazione, democrazia e sovranità nazionale allo stesso tempo. Se i leader europei desiderano mantenere la democrazia devono scegliere tra l’unione politica e la disintegrazione economica. Devono rinunciare in modo esplicito alla sovranità economica oppure metterla, in modo attivo, a servizio dei propri cittadini affinché ne traggano beneficio.

 

Bisogna individuare un percorso alternativo, dopo che per un ventennio si è imposta la rivincita conservatrice sulla solidarietà e sulla coesione. Non è semplice ma rinunciare significherebbe accettare l’ineluttabilità di un possibile declino dell’uomo e dei suoi diritti. È però un compito difficile quello di rimanere fedeli ad un sistema di valori in una società profondamente trasformata dagli interessi di pochi, dalle leggi di uno sviluppo economico senza regole, dall’affermazione del consumismo, dell’edonismo, del narcisismo, dalla competizione selvaggia. Una società sempre più caratterizzata dalla graduale sostituzione, nel vivere emozioni e sentimenti, della realtà virtuale in luogo della realtà dei rapporti interpersonali e dalla riduzione, nella mente delle persone, dell’importanza del rapporto con il “sacro” e con il “collettivo”. Per questo dobbiamo fare lo sforzo di riportare i valori nella società, in modo da recuperare il senso della vita e ridare centralità alla solidarietà, alla coesione. Da dove partire? A mio modesto parere, bisogna iniziare dal rileggere la Costituzione. Essa è l’essenza del convivere unitario della comunità. Essa trasmette i valori ai nostri figli, dà un senso all’essere cittadini italiani. Ogni articolo della Costituzione rappresenta la coesione di un popolo e testimonia i principi che fanno forte una nazione ed orgoglioso il popolo di viverci: dall’art. 1, che riconduce il fondamento della nostra Repubblica al lavoro, ai successivi che riconoscono alla persona il diritto di emanciparsi attraverso il lavoro, il diritto al salario, un salario che deve essere in grado di farla vivere dignitosamente. La Costituzione italiana difende, ancora, valori fondamentali quali la libertà di pensiero, di religione, di partecipazione civile. Tutto ciò può essere mantenuto anche attraverso la mediazione culturale, per mezzo dei circuiti formativi che insegnino il pensiero della convivenza e della coesione. La Costituzione permette ad ogni cittadino di essere protagonista della vita politica e quindi della democrazia. Consacra la sovranità del popolo in quanto gli riconosce il diritto di eleggere i propri rappresentanti e la partecipazione alle scelte. Nella Costituzione vi sono le tutele di diritti fondamentali quali il riconoscimento della solidarietà e della coesione sociale, attraverso il welfare, cioè per mezzo della sanità, la previdenza, l’istruzione. Invece, oggi, viviamo in una società in cui esistono troppe apatie, troppe deleghe, fino all’abbandono della militanza politica che rende insufficiente la partecipazione democratica! Tutto questo avviene anche perché non ci sono più strumenti di partecipazione in cui impegnarsi, autorità morali e ideali che svolgono la funzione di stimolo ed esempio. In questa nuova realtà che si è determinata rischia proprio la democrazia. Bisogna ridare motivazione alle persone, dimostrare loro che possono essere proprietari del loro futuro, attraverso l’impegno di ognuno. A volte basta anche l’impegno di uno anche quello più piccolo, per smuovere gli altri, per rimettere in moto l’intera società. Bisogna, invece, mantenere, in un sistema che ancora voglia essere democratico, pesi e contrappesi, per evitare la dittatura della maggioranza.

 

Scriveva Mill che “il rischio maggiore per la democrazia era il dispotismo mentale. Per non contraddire il potere del conformismo, si diffonde una sorta di pacificazione delle menti che sacrifica il coraggio morale e intellettuale. Quando la paura dell’eresia conduce anche le menti più critiche al silenzio, la vita intellettuale del popolo muore perché la verità trae alimento dal dialogare libero e contraddittorio”. Tutto questo fotografa quello che sta avvenendo oggi in Italia dove prevale il conformismo e viene meno la possibilità di dialogo e di dissenso. E ancora Popper: “La mia convinzione è che ogni teoria della sovranità trascura di affrontare una più fondamentale questione: la questione, cioè, di sapere se non dobbiamo sforzarci di realizzare un controllo istituzionale dei governanti bilanciando i loro poteri mediante la contrapposizione di altri poteri. Questa teoria dei freni e dei contrappesi può almeno pretendere un’attenta considerazione” . Bisogna ridare alle istituzioni la loro autorevolezza in modo che, ancor prima che con le norme, possano divulgare la cultura della legalità, della partecipazione, dell’emancipazione civile, democratica e sociale. È necessario restituire ruolo centrale al progetto sociale basato sull’Uomo, ricollocando i suoi bisogni, materiali, culturali e spirituali, in un quadro armonico che sappia tener conto delle trasformazioni della società intervenendo per correggerne le storture. Allora, per ripristinare la comunità che avevamo accettato, partiamo dal rimettere in discussione quel modello di sviluppo che ritiene che i costi sociali ed ambientali siano solo sperperi. Per questo la prima azione deve essere quella di riproporre una iniziativa politica per ripristinare condizioni di equilibrio nella gestione delle risorse a favore dell’intera collettività.

 

Per fare questo ci vorrebbe una diversa politica. Purtroppo, nel nostro Paese è venuto meno lo spirito laico che aveva caratterizzato in passato la politica e le relazioni. Quando dico spirito laico, intendo quella esperienza che ha formato intere generazioni, nel dubbio e non nelle certezze, nella difesa della libertà di chiunque di potersi esprimere liberamente anche quando è in posizione di minoranza, nell’evitare dogmi ed egemonie culturali e politiche, nel valutare tutti gli aspetti dei cambiamenti, e soprattutto nel ridefinire regole di partecipazione per tutti i soggetti rappresentativi. La società si sta orientando sempre più verso la virtualità delle discussioni, i partiti politici non hanno più un rapporto con la base, anche perché le modifiche del sistema elettorale riducono sempre più la necessità di ricercare il consenso perché il potere si sta spostando progressivamente sempre più dalla volontà popolare e dai rappresentanti eletti del popolo alle decisioni di pochi leader. È necessario un grande impegno, anche culturale, per rigenerare una politica democratica, nella quale antichi valori possono essere riaffermati. E quali se non il riformismo, la laicità, la solidarietà e la coesione? Il sindacato confederale può contribuire in tal senso. Deve riproporsi quale soggetto politico per ridare voce alla società e al mondo del lavoro e deve diventare indispensabile ed insostituibile nella politica riformista. Un sindacato riformista si pone l’obiettivo di risolvere i problemi dei lavoratori e di tutti i cittadini in generale, migliorandone gradualmente le condizioni sociali, tramite un esercizio responsabile e laico del proprio ruolo, che non si limiti alla mera contestazione ma che sia propositivo e quindi partecipativo nelle scelte economico - sociali di un Paese.

 

L’azione riformista ripudia la rivoluzione e la mera conservazione dell’esistente ed interviene a governare il mutamento sociale quando questo non si ispira alla giustizia come equità. Mira alla ricerca del benessere all’interno della società con politiche di inclusione e di vera emancipazione delle persone, attraverso modifiche democratiche dell’ordinamento politico, giuridico, sociale ed economico.

 

Oggi, come ieri, servirebbe anche una nuova classe politica che ripristini una mediazione vera con le componenti sociali, che si contrapponga agli interessi economici finanziari e sia in grado di assicurare le garanzie di una democrazia partecipata e condivisa. Per questo l’impegno a tutti i livelli deve essere rivolto a ricercare soluzioni di dialogo fra le diverse componenti sociali e politiche. Questo solo un sindacato riformista lo può fare! La relazione contrattuale non potrà certo venir meno ma dovrà iscriversi all’interno di un’azione di rilancio della funzione storica del sindacato confederale. Quest’ultima non è quella di rappresentare limitati interessi corporativi e settoriali del mondo del lavoro bensì quella di esser riferimento dell’intero equilibrio socio-economico, determinando una politica economica diversa, anche d’inserimento e di partecipazione del lavoratore ai processi di cambiamento.