Il confronto europeo tra modelli di lavoro su piattaforma
LUGLIO 2019
Sindacale
Il confronto europeo tra modelli di lavoro su piattaforma
di   Ivana Veronese

 

 

Primi risultati da un seminario tra parti sociali su modelli e casi di gig economy nel progetto europeo “Don’t Gig Up!”

 

Il 17 maggio, a Parigi, si è tenuto un seminario di confronto tra parti sociali europee su modelli e casi di gig economy nel quadro del progetto Don’t Gig Up!, la cui finalità è di creare occasioni di approfondimento e apprendimento reciproco per una migliore comprensione del fenomeno, delle tendenze che esso sta assumendo e delle misure per garantire regole e tutele a queste nuove tipologie di lavoratori (Cfr. box per maggiori informazioni). In particolare, il seminario di Parigi ha preso in considerazione come la perdita dei confini dell’organizzazione del lavoro e dei suoi spazi, ampliando il lavoro in remoto e le sue forme, costituisce un elemento di forte innovazione per le forme di rappresentanza e di tutela dei lavoratori. Ci si trova oggi di fronte ad un bivio che richiede una forte presenza e una azione di guida da parte delle rappresentanze sociali: se da un lato si dischiudono per i lavoratori nuovi spazi di professionalizzazione, di autonomia e bilanciamento tra vita e lavoro, dall’altra si va verso ampie riduzioni dei diritti in stretta dipendenza dalla cultura delle imprese. Ciò richiede di ripensare e riformulare le strategie e gli strumenti per raggiungere i lavoratori e aggregarne le istanze.

 

Numerosi sono stati i casi e i modelli presentati, fortemente legati alle specificità dei contesti normativi nazionali e della storia delle relazioni industriali tra le parti. I casi hanno riguardato le misure legislative nazionali e le iniziative istituzionali locali, le attività perseguite dalle organizzazioni sindacali, la considerazione dei gig worker nei contratti collettivi. Le iniziative nazionali e locali In Francia è profondamente radicato un dibattito sulla responsabilità sociale delle piattaforme, anche in ragione dell’attuale confronto sulle opzioni di regolazione normativa. Il primo tentativo di regolare il lavoro tramite piattaforma risale alla Legge 8 agosto 2016, che tramite l’art. 60 introduce un capitolo sulla responsabilità sociale delle piattaforme nel Codice del lavoro. La disposizione e i relativi decreti attuativi hanno introdotto una serie di obblighi per le piattaforme, come la copertura contro gli infortuni sul lavoro, il riconoscimento delle qualifiche professionali, del diritto di sciopero e della possibilità per i lavoratori di organizzarsi. Una disposizione dell’articolo escludeva espressamente la qualificazione dei lavoratori della gig economy come dipendenti, ma ciò è stato rimosso durante le successive discussioni in Parlamento. Un nuovo passo è stato compiuto da un articolo della Legge dell’agosto 2018 che dà la possibilità alla piattaforma di regolare alcuni aspetti relativi ai rapporti di lavoro mediante carte unilaterali, soggette all’approvazione delle autorità pubbliche, ma lo stesso articolo è stato dichiarato incostituzionale nel mese successivo. La ricerca di un equilibrio è ancora complesso, anche perché la normativa non ha previsto strumenti di valutazione.

 

Permangono preoccupazioni sulle garanzie reali fornite dalle piattaforme, ad esempio in termini di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, considerate deboli o inefficaci, mentre diverse iniziative interessanti sono state implementate dalle piattaforme per la formazione degli addetti. In Polonia gli unici tentativi condotti dal Governo hanno riguardato la regolamentazione dei conducenti che fanno riferimento alla piattaforma Uber. In particolare, il Ministero delle Finanze ha chiarito l’obbligo per i conducenti a registrarsi come imprenditori autonomi, il cui reddito è soggetto a tassazione in base alle norme generali. Tale considerazione è stata seguita da alcuni conducenti, altri hanno abbandonato la piattaforma e altri ancora hanno iniziato a operare tramite intermediari, i cosiddetti partner della flotta Uber - piccole imprese proprietarie di automobili, con contratti di mandato (un tipo di contratto di diritto civile). Il Ministero delle Infrastrutture ha proposto di regolamentare l’attività delle piattaforme digitali nel settore introducendo l’obbligo di licenza per gli intermediari nei servizi di trasporto su strada, come Uber. La motivazione era di creare le condizioni per il funzionamento legale delle piattaforme e dei loro conducenti e per aiutare lo sviluppo dell’imprenditorialità. Il mancato coinvolgimento da parte del Ministero del lavoro non ha peraltro consentito di produrre effetti sulle questioni del lavoro sommerso, delle condizioni di lavoro, della protezione sociale e dei diritti dei lavoratori.

 

Sul piano istituzionale italiano, in attesa della prosecuzione del confronto con il Governo sulla regolazione del lavoro su piattaforma, sono intercorse diverse esperienze, tra le quali è stata annoverata la legge approvata dalla Regione Lazio nell’aprile 2019. L’atto impegna la Regione a introdurre obblighi sulle piattaforme in termini di salute e sicurezza sul lavoro e misure volte a stimolare la conformità, quali ad esempio un apposito comitato volto a promuovere il dialogo sociale, un “marchio giusto” per piattaforme e un sito-rete destinato ad aumentare la consapevolezza sui diritti tra i lavoratori. Un elemento presente nel dibattito europeo ma anche nazionale italiano ha riguardato il fatto di poter considerare le piattaforme come agenzie di lavoro temporaneo, richiamando in tal modo il contesto giuridico definito dalla direttiva europea 2008/104/ CE del novembre 2008 sul lavoro tramite agenzia interinale. Peraltro questa opzione, già esplorata dall’ETUC, non ha incontrato il favore della Commissione. Inizialmente la Commissione non è intervenuta su tale tema su cui ha mostrato un rinnovato interesse solo dopo la proclamazione del “pilastro dei diritti sociali” del novembre 2017. Iniziative sindacali e le esperienze nella contrattazione collettiva In Germania il sindacato IG Metall ha creato un portale web in cui i lavoratori potevano comunicare la loro esperienza sulle piattaforme e valutarle. Anche se il campione ottenuto non può essere considerato statisticamente rappresentativo, l’iniziativa ha consentito di creare un primo contatto tra sindacato e piattaforme, anche avviando alcuni negoziati.

 

Già nel 2015 alcune piattaforme tedesche hanno sviluppato un codice di condotta, preoccupate per la loro cattiva reputazione pubblica, e più recentemente il sindacato ne ha ottenuto una ulteriore revisione impegnando le piattaforme a pagare “in base agli standard locali”, anche se non si tratta ancora di tariffe esplicitamente minime. Il sindacato tedesco Ver.di ha svolto un’indagine tra funzionari sindacali e consigli di fabbrica nel 2016 rilevando una diffusione del crowd working nel settore ICT ed una tendenza di questi lavoratori a volersi considerare come autonomi, più che dipendenti. Il sindacato fornisce consulenza gratuita ai propri membri, incentivando in tal modo i lavoratori autonomi a sindacalizzarsi. L’obiettivo finale è pervenire ad una sorta di contrattazione collettiva, cercando una convergenza su alcuni temi trasversali agli autonomi e ai dipendenti quali l’opportunità di garantire un insieme comune di protezioni sociali. Tra le esperienze italiane avviate dalla UIL, è stata citata quella di Networkers.it, strumento della UILTuCS per i lavoratori della gig economy. Il sindacato ha lanciato un desk sindacale basato sul web, cercando di rispondere alle richieste dei lavoratori e di creare un primo contatto già dal 2011 con i lavoratori del settore ICT che operano da remoto tramite piattaforme, per estendere il proprio intervento alle nuove forme di lavoro dei rider. Attraverso il portale Networkers.it viene condotta una indagine on line in continuo aggiornamento sulle condizioni di lavoro dei gig workers. Inoltre, anche con il concorso di UIL Giovani di Milano e Lombardia, vengono contattati i lavoratori direttamente nei loro punti di incontro per facilitare la diffusione di una consapevolezza dei diritti di protezione sociale e delle opportunità offerte dal sindacato.

 

Anche a Bologna, dopo una forte nevicata nell’inverno del 2017, UIL ha contribuito all’avvio di consultazioni sulla questione dei rider, pervenendo alla sottoscrizione di un accordo locale, la Carta di Bologna, che pur impegnando solo alcune piattaforme locali offre diritti di informazione sulle condizioni contrattuali, sui meccanismi di rating, sulla tutela dei diritti fondamentali, garantisce una retribuzione minima in linea con i contratti collettivi e stabilisce l’assicurazione in caso di incidenti e il diritto di disconnettersi. La Carta è stata un punto di partenza che ha innescato una discussione sull’argomento e rappresenta un esempio di iniziative simili da parte di altre istituzioni locali. Quale misura più avanzata nell’esperienza della contrattazione, il seminario ha considerato l’esperienza UIL del contratto collettivo della Logistica del dicembre 2017 e del relativo protocollo aggiuntivo del luglio 2018, che ha visto l’inserimento della figura dei rider tra i beneficiari. In effetti, la qualifica professionale di rider era già presente nella classificazione usata per determinare la scala delle retribuzioni, per lavoratori di Fedex, DHL o altre società simili. Ma l’accordo ha consentito l’estensione delle protezioni sociali anche ai cosiddetti rider, eliminando il divieto di lavoro a chiamata, introducendo una scala salariale per gli addetti alle consegne, stabilendo una durata dell’orario di lavoro giornaliero tra le 2 e le 8 ore distribuibili su un arco di 13 ore, e un orario massimo settimanale di 39 ore. I cambiamenti nel lavoro devono essere comunicati con un preavviso di 11 ore e l’assegnazione dei turni non deve essere influenzata dai sistemi di rating. L’accordo non è stato firmato dalle grandi aziende di piattaforme per la consegna di cibo, quanto invece da organizzazioni che rappresentano le imprese della logistica.

 

Anche in Spagna l’UGT ha creato su web uno “spazio sindacale virtuale” come punto di riferimento soprattutto per i rider per ottenere informazioni sui diritti e consulenza, ed anche in questo caso i sindacalisti incontrano i lavoratori nei loro luoghi di incontro. È ancora presto per ottenere dati sull’efficacia dell’iniziativa, ma c’è consapevolezza che questa è una strada giusta da percorrere. Sempre in Spagna, il contratto collettivo per i servizi di catering ha inserito nella sfera contrattuale (dicembre 2018) i lavoratori delle piattaforme digitali per la consegna dei cibi ai clienti di ristoranti. Nel seminario è stato sottolineato come questa azione non abbia ancora prodotto effetti diretti, se non la possibilità di invocare il contratto collettivo dinanzi ai tribunali. Il progetto sta proseguendo con l’analisi delle conseguenze delle varie misure fin qui considerate e prendendo in considerazione nuovi altri casi che possano consentire una più ampia comprensione del lavoro attraverso piattaforme, in continua crescita e differenziazione. 

 

 

Il progetto Don’t Gig Up! e i suoi Partner

 

Il progetto è finanziato dalla Commissione Occupazione, Affari sociali e Inclusione dell’Unione europea nel quadro delle iniziative a favore del dialogo sociale. La finalità è creare e rafforzare la conoscenza su come le organizzazioni sindacali e del dialogo sociale possono estendere strumenti di protezione sociale ai lavoratori della Gig economy in Europa.

 

Promossa e coordinata dalla Fondazione Giacomo Brodolini, l’iniziativa conta sulla partecipazione e il confronto tra organizzazioni dei seguenti paesi europei:

 

 

Contribuisce inoltre allo sviluppo dei lavori la confederazione europea dei sindacati ETUC. Ad oggi sono stati realizzati due seminari di “mutual learning”, a Varsavia e Parigi. Si prevede un ulteriore seminario a Berlino a novembre e un convegno conclusivo di diffusione dei risultati a Roma, nel gennaio 2020, coordinato dalla UIL. Ulteriori informazioni sul progetto e sui temi della gig economy sono contenute sul social Twitter all’account Don’t Gig Up!

 

 

 

 

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