Cristina Capotondi interpreta al cinema l’assistente di una casa di riposo che si ribella alle molestie sessuali del direttore sanitario. Il film è «Nome di donna», diretto da Marco Tullio Giordana e sceneggiato da Cristiana Mainardi, e uscirà nelle sale domani. La sceneggiatura è stata scritta due anni fa, quando ancora nessuno immaginava lo scandalo Weinstein
Oltre le attrici. Alle quali dobbiamo dire grazie, per la valanga innescata con il caso Weinstein. Ma che ora deve andare oltre. Per scardinare abusi e malcostumi nelle fabbriche, negli ospedali, a scuola, in ufficio, nei supermercati, dentro i call center, nei centri commerciali, nelle case di cura e di riposo, dove chi subisce ricatti sessuali ha troppo da perdere e poche alternative. Questa inchiesta, nata sul filone delle denunce contro il produttore americano Harvey Weinstein e del movimento #MeToo, cui è seguita la lettera delle donne del cinema italiano «Dissenso comune», vuole provare a raccontare le storie delle nostre vicine di casa, delle sconosciute che incrociamo sui mezzi ogni giorno, delle lavoratrici che non possono contare su notorietà e ricchezza per essere credibili. Daremo voce a quelle che sono riuscite a denunciare un collega o un capo che hanno abusato del loro ruolo, e scriveremo come. Il primo dato è il punto di partenza di ogni cambiamento: le denunce sono troppo poche.
Colpite donne (e uomini)
L’Istat ha pubblicato meno di un mese fa la fotografia del nostro Paese: si stima che 425 mila donne (2,7%) abbiano subìto molestie fisiche o ricatti sessuali sul posto di lavoro solo negli ultimi tre anni. Quasi una su dieci (8,9%) nel corso della vita. Centosessantasettemila (1,1%) sono quelle che hanno subìto un ricatto per essere assunte, mantenere il posto o ottenere una promozione. Ne sono state vittima più frequentemente le impiegate (37,6%) e le lavoratrici del commercio e dei servizi (30,4%). Gli uomini non sono esenti (l’Istat calcola che negli ultimi tre anni un milione 274 mila uomini hanno ricevuto molestie a sfondo sessuale, quasi sempre da altri uomini, non necessariamente sul luogo di lavoro) ma sono meno colpiti perché questo tipo di abusi sono spesso legati a una asimmetria di potere e le donne nelle posizioni apicali sono poche. «A quanto ne so, non abbiamo sentito storie di molestie commesse da dipendenti appena assunti nei confronti di loro superiori» aveva sintetizzato al Corriere Francesca Donner, direttrice del «progetto sul genere» del New York Times. Nessun maschio attiva la denuncia agli sportelli dedicati della Uil, spiega Alessandra Menelao, responsabile nazionale dei centri di ascolto mobbing e stalking contro tutte le violenze: si limitano a telefonare per anonime richieste di informazioni. «Ai nostri sportelli arrivano ogni anno mille casi: quelli relativi alle molestie dove si lavora erano fermi al 10% fino a novembre, poi sono saliti al 15», aggiunge Menelao, che giustifica l’impennata con due fattori: la spinta del caso Weinstein e la norma inserita nella legge di bilancio che tutela la lavoratrice e il lavoratore che agiscono in sede di giudizio (legge 27 dicembre 2017 n. 205).
Commercio, pubblico impiego
L’osservatorio Uil registra il maggior numero di segnalazioni nei settori del commercio, turismo e pubblico impiego. Ma anche qui qualcosa sta cambiando: nei nuovi contratti, in particolare in quello della scuola, è previsto il congedo per le donne vittime di violenza. La Cgil ha messo in campo i «delegati sociali»: occhi e orecchie attenti a intercettare sofferenze e vulnerabilità. «Figure nate storicamente per prendere in carico situazioni di debolezza» racconta Ivan Lembo, responsabile Politiche sociali della Camera del lavoro di Milano. Consigliere di parità e aziende Uno strumento poco noto e per niente utilizzato sono le consigliere di parità, figure di tutela dell’uguaglianza al lavoro: operano sia a livello provinciale che regionale. Paola Mencarelli, consigliera di Parità supplente della Lombardia dal 2012, allarga le braccia quando dice che lo scorso anno al suo ufficio è arrivata una manciata di segnalazioni. Le aziende hanno capito che devono fare la loro parte. Assolombarda ha siglato un’intesa con Cgil, Cisl e Uil che impegna imprese e sindacati a favorire un percorso di tutela della dignità del lavoratore. Lo stesso ha fatto Confindustria. In Tribunale arrivano pochissime denunce: spesso i giudici le inquadrano sotto il «cappello» di violenza sessuale e maltrattamenti in famiglia, perché in certi contesti piccoli i rapporti sono assimilabili a quelli di un nucleo familiare.
Perché poche denunce
Resta l’aspetto psicologico, difficile da circoscrivere. Chi non denuncia preferisce andarsene (22,4%), non ha fiducia nelle forze dell’ordine (22,1%), si vergogna, ha paura di essere giudicata o non essere creduta (14,6%). La psicologa Giovanna Castellina sottolinea che quello che succede alla psiche è importante, il lavoro fa parte della nostra identità, rappresenta il nostro sostentamento. Proprio per questo, forse, nella ricerca di dati e storie abbiamo incontrato una resistenza che non trovammo neppure nel 2012, durante la precedente inchiesta della 27esima ora sulla violenza domestica. È arrivato il momento di andare oltre.
Cominciamo con due storie
- Arianna, farmacista: «Temevo di perdere il posto. Ho resistito 8 anni»
- Lara, ragioniera : «Mi metteva le mani addosso poi chiedeva: sei lusingata?
In Tribunale arrivano pochissimi casi: spesso i giudici li inquadrano come violenza sessuale e maltrattamenti in famigliaIl 22,4% di chi non denuncia preferisce licenziarsi
CORRIERE DELLA SERA, LA27ORA, 6 marzo 2018 (modifica il 7 marzo 2018 | 23:18)
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