Agorà
Bella ciao!
di S. Tucci pagina 26
Nelle scorse settimane siamo stati auditi dalla Commissione XI Lavoro Pubblico e Privato del Senato della Repubblica sul disegno di legge deleghe c.d. miglioramento della P.A.
L’occasione è stata più che proficua per manifestare, come Uil, le nostre perplessità e, soprattutto, preoccupazioni per quello che si paventa tutt’altro che un miglioramento ma che anzi rischia di essere un notevole, pesante e repentino ritorno a un passato superato faticosamente e caparbiamente con un lungo e positivo percorso di concertazione e contrattazione, che non può assolutamente esser cancellato con un colpo di spugna.
Il disegno di legge in questione si propone come l’ennesimo intervento normativo di riforma del rapporto di lavoro alle dipendenze della Pubblica Amministrazione. Le dichiarazioni inaugurali della neo Funzione Pubblica guidata dalla Ministra Bongiorno, a suo tempo, invece, ci avevano tranquillizzato proprio perché si ponevano nel senso di non intervenire normativamente per l’ennesima volta, come in rituale che di legislatura in legislatura si va ripetendo puntualmente. Eppure nonostante gli annunci, la tradizione sembra continuare ed anche in maniera piuttosto invasiva.
Ebbene, nell’esporre le nostre osservazioni non abbiamo che potuto palesare, fin da principio, il dissenso per una scelta che, da come si ricava dai criteri di delega, si pone in netta controtendenza con l’impostazione giuslavoristica che, dopo gli anni bui di vigenza della legge Brunetta e grazie all’accordo del 30 novembre 2016 e alla sua traduzione normativa nel Testo Unico del pubblico impiego novellato nel 2017, siamo riusciti a recuperare restituendo dignità e ruolo alla contrattazione e alle relazioni sindacali.
Sarebbe ripetitivo tornare sulle motivazioni che hanno giustificato e mosso quel percorso di lotta sindacale prima e di serrata e fruttuosa concertazione poi, e che ci hanno permesso di scardinare il sistema della legge 150, ma proprio perché tanto abbiamo lavorato per riequilibrare il rapporto tra le fonti del pubblico impiego, non possiamo accettare oggi che si torni indietro di dieci anni con uno schiocco delle dita. E questo ancor più perché la Uil è stata una chiara protagonista, anche trascinando con sé le altre sigle sindacali, della recente stagione di concertazione, delegificazione e di rilancio della contrattazione pubblica.
Ciò premesso, la lettura di un provvedimento non può prescindere che dall’individuazione dei suoi obiettivi. In questo caso, e non rappresenta tanto una novità, è il rilancio dell’azione amministrativa, nell’intento di garantirne l’efficienza e il miglioramento della qualità dei servizi resi ai cittadini. Orizzonte legittimo e importante per il Paese che, però, si scontra con le conclusioni, cui ormai siamo abbondantemente abituati, del disegno di legge, ossia la classica clausola di invarianza di spesa. Ancora una volta, così, un buon proposito sconta l’assenza di una seria politica di investimenti a lungo termine che lo permetta concretamente.
Gli strumenti proposti per ottenerlo dagli estensori sono la limitazione del perimetro della contrattazione, il ripristino di quei metodi di valutazione omogenei che hanno ingessato gli uffici per dieci anni e l’ulteriore stretta sui controlli. Pertanto, abbiamo evidenziato alla Commissione e ai senatori presenti, come dal nostro punto di vista, non sia di certo questa la strada giusta per razionalizzare e modernizzare la pubblica amministrazione o per porre rimedio, come leggiamo nella relazione di accompagno, alla “situazione di ritardo (“grave” in alcuni settori ed in alcune aree geografiche del Paese) nei processi di innovazione”.
L’idea di efficientamento del Legislatore, per noi, è chiaramente non condivisibile. Si pretende di rimettere in corsa la pubblica amministrazione attraverso una stratificazione legislativa che si concentra esclusivamente sui suoi lavoratori “a servizio della Nazione”. Il ché potrebbe anche non esser cosa errata, del resto noi stessi abbiamo definito “il lavoratore” quale motore della P.A., come abbiamo fatto sottoscrivere allo stesso governo il 30 novembre 2016. Il problema è che, anche in quest’occasione, non si ragiona sul dipendente come risorsa su cui investire ma come un elemento da ridimensionare nelle sue capacità di partecipazione alle scelte – relazioni sindacali e contrattazione – e da perseguire in quanto “furbetto” per antonomasia. Sotto quest’ultimo profilo, quindi, la presenza in servizio continua ad essere il punto dirimente per pensare a qualsiasi incremento della “produttività”, sorvolando invece sulle possibili datate conoscenze di un personale poco formato e mai aggiornato dalle amministrazioni, sulle risorse a disposizione, sugli ambienti lavorativi dove si presta l’attività e sulle forze su cui è possibile contare per rendere equamente e puntualmente un determinato servizio.
Ma entriamo nel dettaglio del disegno di legge e delle nostre osservazioni. In audizione ci siamo soffermati special modo sulla delega che vuol favorire il merito e la premialità. Essa corre il rischio di ripristinare quel modello delle c.d. gabbie che aveva impedito qualsiasi forma di valutazione, bloccando tutto un sistema della misurazione, che, precisiamo, noi accogliamo ma a condizioni determinate che garantiscano equità e rifuggano giudizi aprioristici o meramente numerici. Nel provvedimento, tra l’altro, si inserisce come metro di misurazione, ancora una volta, il parere dell’utenza. In più occasioni abbiamo spiegato come un parametro simile, però, non sempre risponde a criteri oggettivi, dato che, pur se la comunità è beneficiaria ultima dell’azione dell’amministrazione, questa non è ovviamente a conoscenza delle condizioni lavorative complessive nel cui quadro i lavoratori devono fornire una determinata prestazione.
Questo a maggior ragione in un settore come quello pubblico, dove il concetto di produttività non sempre è quantificabile empiricamente, perché non fornisce solo unità di prodotto ma anche e soprattutto beni immateriali e servizi non empiricamente misurabili, che, tra l’altro, sono risultato di un bilanciamento e contemperamento di più e diversificati interessi di un gruppo sociale. Quest’ultimo profilo implicitamente sta a significare che non si tratta di un settore dove è possibile affidarsi a un giudizio di un singolo, perché, proprio per la natura collettivistica e universalistica dei servizi offerti, alcuni beneficeranno di una distribuzione di un servizio a tutela di un interesse che può contrastare con l’interesse di un altro soggetto. Questa, d’altronde, è la funzione di qualsiasi amministrazione che, a risorse date, si trova a dover decidere prioritariamente su quale obiettivo investire piuttosto che un altro. Cosa, poi, ancor più complicata in assenza di disponibilità economiche. In tal caso, ovviamente, i singoli scontenti saranno sempre più e quali colpe dovrebbero avere di questa cattiva distribuzione i dipendenti? Ecco perché questo criterio non può esser valido, soprattutto quando così incisivo sui lavoratori.
Con questo, abbiamo tentato di far capire, per l’ennesima volta, che solo chi conosce nel suo complesso la realtà di un determinato ufficio può giudicare il lavoro dei suoi dipendenti. E abbiamo precisato come chi giudica, però, deve utilizzare criteri e indicatori adeguati a quella singola realtà lavorativa e non calati aprioristicamente dall’alto e, soprattutto, non può e non deve trovarsi costretto a etichettare una percentuale precisa di dipendenti come meritevoli e un’altra necessariamente come demeritevole.
L’esperienza ci ha dimostrato che questo modello non ha funzionato e ha ingessato la contrattazione e le progressioni di carriera ancor prima del loro blocco per legge. Con il nuovo Testo Unico, sulla spinta dell’accordo del 30 novembre, il tema dei criteri e delle modalità di misurazione delle performance, e quindi della premialità, è stato restituito alla contrattazione e ai lavoratori. Quest’aspetto ha segnato un’importante vittoria per i lavoratori, tracciando una significativa inversione di marcia di fronte a quello che è stato l’odioso 25; 50; 25. Dopo tanto lavoro, quindi, abbiamo ribadito alla Commissione che non abbiamo alcuna intenzione di vederci catapultare repentinamente indietro nel tempo. Questo non vuol dire non credere nella validità di un vero sistema premiale, non lo avremmo altrimenti concordato il 30 novembre 2016. In quella sede, però, l’intento era di disegnare, attraverso la contrattazione e non con norme eteronome, un sistema di misurazione delle performance non omogeneo e vincolante per tutti, come quello che fu della Brunetta, ma legato a parametri oggettivi, trasparenti e diversificati realtà per realtà come definiti dalla contrattazione di secondo livello e realizzato con soggetti neutrali che ne misurino il grado. Il contratto rappresenta, per questo, quella sede di obiettività nella definizione dei criteri di valutazione, che, invece, gli estensori del provvedimento vogliono ricercare in norme generali e figure esterne che non faranno che onerare i bilanci già in rosso delle istituzioni, sempre e solo a discapito dei lavoratori. Sì perché a ben vedere quello che preme, più che incentivare i meriti, è insistere sul solito trend persecutorio che poi si traduce in misure che più che rimediare alle mancanze di un determinato ufficio, le acuiscono e ne è limpido esempio la possibile inibizione dell’esercizio delle facoltà assunzionali della singola istituzione. Per non parlare del divieto di conferimento di incarichi, oppure di procedere all’erogazione delle componenti del trattamento accessorio legate alla valutazione della performance e alla retribuzione di risultato.
Insomma, tirando le somme, più che stimolare i lavoratori, si preferisce intimorirli. Un’impostazione simile, tra l’altro, dimentica completamente gli oltre dieci anni di tagli alla spesa pubblica e alle istituzioni stesse, gli oltre dieci anni di blocco del turn over che hanno prodotto un pesante invecchiamento della popolazione lavorativa e gli oltre dieci anni di mancate progressioni di carriera.
Per tutte queste ragioni, abbiamo definito inadeguata la scelta del Legislatore delegante, soprattutto sulla scorta del fatto che non può ambirsi a incrementare la performance dei propri dipendenti se questi lavorano il più delle volte sotto organico, senza mezzi e risorse rispondenti alle esigenze di quell’utenza che poi dovrebbe giudicarli. Non può migliorarsi un servizio se non si investe nella formazione e nella valorizzazione delle professionalità di chi lo offre. Insomma non si può far crescere la produttività di un’azienda senza investimenti.
Altro punto che ha incentrato le nostre attenzioni è stato quello relativo alla delega dell’articolo 6 del disegno che prevede di “ridefinire gli ambiti di applicazione della legge, della contrattazione collettiva e di quella individuale, nel rapporto di lavoro personale”, specificando le “ipotesi di derogabilità delle disposizioni di legge da parte della contrattazione collettiva”. Scopo è quello di “valorizzare il principio in base al quale i dipendenti pubblici sono al servizio esclusivo della Nazione”.
Non abbiamo esitato, ripercorrendo un po’ di storia, a parafrasare come alquanto anacronistica questa impostazione, anche perché ampiamente superata dalle riforme degli anni ‘90 - quelle della c.d. prima e seconda privatizzazione, o meglio contrattualizzazione, del pubblico impiego – che sovvertirono la concezione amministrativa del rapporto di lavoro alle dipendenze della P.A., distinguendo tra organizzazione degli uffici, di competenza pubblica e quindi della legge, e disciplina del rapporto di lavoro (tutto ciò che attiene il trattamento economico, l’organizzazione del lavoro e le garanzie sindacali), propria del diritto comune.
Le fonti del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici divennero da allora le disposizioni di diritto comune e i contratti collettivi, fino alla parentesi dell’operazione di rilegificazione della riforma 150/2009 poi chiusa con l’accordo del 30 novembre. Proprio quell’accordo ha ridefinito la contrattazione quale sede naturale della disciplina del rapporto di lavoro, riconoscendole peraltro la facoltà di derogare le norme di legge, passate, presenti e future, che negli anni addietro avevano invaso il suo campo di competenze.
La delega in discussione, pertanto, ci ha suscitato non poche preoccupazioni per il serio rischio di tornare a far pendere l’ago della bilancia verso la legge e, di conseguenza così, di ridurre la partecipazione e il controllo del lavoratore sulle scelte che riguardano direttamente il suo rapporto di lavoro e l’organizzazione del lavoro complessiva. Non può di certo ritenersi una valida giustificazione l’esigenza di una maggior chiarezza nel riparto delle competenze, dato che, come abbiamo fatto presente, essa non può esser comprovata dalla breve esperienza della novella da ultimo operata all’art. 40 del testo unico del pubblico impiego. Difatti, le ripristinate relazioni sindacali, ad oggi, scontano ancora il peso di anni di tagli lineari e di mancati investimenti che non stanno ancora permettendo un vero rilancio della contrattazione, soprattutto quella di secondo livello. Anche per questo abbiamo suggerito di promuoverle piuttosto che ridimensionarle.
Evidenti, di conseguenza, i nostri dubbi nei confronti di una nuova riforma della disciplina del rapporto di lavoro dei pubblici, così ravvicinata. L’ennesima stratificazione normativa non potrebbe sicuramente ritenersi congeniale ad una semplificazione e velocizzazione dei funzionamenti amministrativi e burocratici, talché, molto più realisticamente, comporterebbe l’ulteriore riorganizzazione che la nostra macchina amministrativa dovrebbe farsi carico dopo le già tante di questi anni. Non ci paiono sicuramente scelte di programmazione efficienti e produttive di surplus per la comunità, anzi, queste, ci prefigurano l’ennesimo aggravio a carico dei lavoratori e quindi degli enti nel loro complesso, e non fanno altro che render più complicato l’obiettivo che ci si pone di facilitare l’interazione del cittadino con la P.A.
La necessità di chiarezza e trasparenza, tutt’al contrario, dovrebbe cercarsi in un processo di omogeneizzazione del mondo del lavoro pubblico e privato, superando le tante distinzioni che ancora residuano e che pesano come un macigno su una macchina burocratica costretta a barcamenarsi in un intreccio normativo che anno dopo anno diviene sempre più fitto e non consente alla P.A. di mantenere il passo con le realtà economiche con cui si confronta. Anche per queste ragioni, abbiamo ricordato ai senatori come le intese contrattuali rappresentino quello strumento, flessibile e bilanciato, unico in grado, nel gioco delle parti, di rispondere puntualmente alle diverse composizioni e nature delle singole strutture, anche adeguando l’organizzazione del lavoro alle stesse esigenze dell’utenza con cui si interfaccia. Ebbene, giungendo alle conclusioni illustrate, quello che abbiamo voluto manifestare alla Commissione è che il miglioramento della pubblica amministrazione va cercato in una seria semplificazione delle procedure e in una nuova e vera progettualità che si traduca in investimenti a favore del lavoro, che lo spronino e non mortifichino.
Investimenti in nuova occupazione, nella stabilizzazione degli ancora troppi precari, in valorizzazione professionale ed aggiornamento di chi è in servizio, nel rinnovo dei contratti, nell’armonizzazione della disciplina del rapporto di lavoro, economica e normativa, tra lavoratori pubblici e privati. È questa l’idea che come UIL abbiamo presentato in audizione, dichiarandoci pronti a intraprendere tutte le azioni a nostra disposizione per tutelare il diritto dei lavoratori pubblici, solo da poco riconquistato, a vedersi riconosciute e garantite corrette e normali relazioni sindacali, che consentano loro di partecipare a tutte quelle scelte che riguardano il proprio rapporto di lavoro e l’ambiente in cui prestano il proprio servizio alla comunità.
L’attenzione del sindacato su questo disegno di legge non potrà che rimanere forte, perché il pericolo che tutto il lavoro di questi ultimi anni crolli come un castello di carta potrebbe esser piuttosto serio.