La crisi generale degli anni scorsi ha investito pesantemente il Friuli Venezia Giulia, mettendo a dura prova i “fondamentali” della sua economia. E a pesare in maniera decisiva sull’arretramento produttivo e sugli impatti occupazionali sono state le tante piccole e piccolissime imprese scomparse “silenziosamente”, perché invisibili agli occhi dei media. I comparti che hanno sofferto di più sono quello manifatturiero, che ha registrato un tracollo produttivo del 20%, con punte anche maggiori in settori cruciali come quello della sedia; ma anche quello delle costruzioni, colpito da una crisi devastante che ha cancellato quasi la metà dei posti di lavoro; per finire con il settore del commercio, che a sua volta ha evidenziato situazioni di criticità causate dal minore potere d’acquisto delle famiglie e dal conseguente calo dei consumi.
Peraltro, si son potuti cogliere, fino a qualche mese fa, dei segnali, seppur deboli e intermittenti, di inversione di tendenza, grazie alla ripresa delle commesse nel settore meccanico e siderurgico, all’allentamento della crisi dell’edilizia, al risveglio del settore del commercio e al buon andamento di quello del turismo. Ma la “ripresina” sembra già essersi esaurita, per lasciare il posto a nuove situazioni di crisi aziendali che investono soprattutto il settore industriale, causate anche dalle tensioni economiche e daziarie internazionali. Certo, dal punto di vista occupazionale, gli ultimi dati ricollocano la regione sopra la soglia, anche simbolica, dei 500.000 occupati, con valori che tendono ad avvicinarsi a quelli pre-crisi. Ma sarebbe sbagliato trarne la conclusione che si stia di fatto tornando alle condizioni di partenza, perché se è vero che il numero dei lavoratori dipendenti è pressappoco il medesimo, è altrettanto vero che sono cambiate la qualità, la quantità e le tipologie del lavoro.
Intanto perché c’è un marcato invecchiamento della popolazione occupata: basti pensare che la fascia d’età fino ai 34 anni, che nel 2008 rappresentava il 30% degli occupati, oggi è scesa al 20%, pari a quasi 50.000 unità in meno; viceversa, la fascia di età degli ultra 55enni è cresciuta di quasi 40.000 occupati. Effetto combinato della Legge Fornero e della scelta delle aziende colpite dalla crisi di privarsi del personale più giovane piuttosto che di quello più anziano ed esperto. Sono inoltre cresciuti i contratti a termine, a scapito di quelli a tempo indeterminato: soprattutto, sono cresciuti a dismisura – addirittura triplicati da 17.000 a 47.000 – i part-time involontari, quelli cioè dettati dalla volontà delle aziende piuttosto che dalle scelte dei lavoratori. Insomma, sempre più contratti temporanei, con orari ridotti e tipologie “atipiche”. Ne sono stati penalizzati soprattutto i più giovani: in regione sono quasi 40.000 (1 su 5!) quelli senza lavoro: per la metà sono disoccupati (iscritti ai centri per l’impiego) l’altra metà il lavoro neanche lo cerca. Da segnalare anche il fenomeno dell’espatrio: in un’Europa ormai senza confini si tratta, in molti casi, della scelta operata da giovani motivati che ricercano un’esperienza di arricchimento personale e professionale, dando vita ad una libera circolazione dei talenti; ma se nell’ultimo decennio gli espatri, in regione, sono più che raddoppiati, ciò è certamente dovuto anche alla storia di quanti, in possesso di requisiti formativi e professionali medio-bassi, hanno deciso di lasciare la regione per il solo fatto che non vi trovavano lavoro. È da ben prima dell’esplosione della crisi generale che come UIL abbiamo denunciato i limiti dell’economia regionale e la sua difficoltà a confrontarsi con le sfide imposte dal mercato globale. Il cosiddetto “modello nord-est”, quello rappresentato dalla moltitudine di PMI manifatturiere operanti prevalentemente in settori tradizionali a media tecnologia, non è stato il frutto di una progettazione, ma il risultato imprevedibile e a lungo vincente di fattori quali lo spirito di comunità, la coesione familiare, la vocazione all’autoimprenditorialità…
Un mix che però oggi non basta più a reggere la competizione sul fronte dei costi lanciata dalle economie emergenti. Peraltro, la gran parte delle aziende più grandi e strutturate è riuscita, anche durante gli anni della crisi, a difendere o addirittura a rafforzare la propria posizione sul mercato globale, investendo in innovazione, in internazionalizzazione, in risorse umane: in una parola, elevando il valore aggiunto dei prodotti. Ed è su questo terreno che anche l’amministrazione regionale deve concentrare i propri sforzi, promuovendo e incentivando politiche industriali capaci di accompagnare l’evoluzione del comparto manifatturiero verso nuovi processi produttivi all’insegna della competitività, della sostenibilità ambientale e della responsabilità sociale d’impresa, anche favorendo l’integrazione delle piccole e piccolissime imprese, l’accesso al credito, i servizi alle imprese, la formazione
31 Ottobre 2019 - n. 10
LAVORO ITALIANO Sindacale
e le politiche attive del lavoro. Adottando quindi una strategia che parta dalla difesa e valorizzazione del tessuto industriale esistente, caratterizzato dalla preponderanza di piccole realtà produttive, alla cui debolezza dimensionale si deve sopperire con la crescita incentivata di network collaborativi, orientando l’evoluzione del sistema dei distretti verso forme di “reti d’impresa” e attivando così processi di integrazione utili a competere sui mercati internazionali e a creare la massa critica necessaria per investire in ricerca e innovazione. Ugualmente, vanno rafforzate le azioni di marketing territoriale volte ad attrarre investimenti ed insediamenti industriali nella regione, legando tuttavia le relative incentivazioni a delle precise condizioni. Perché i casi di delocalizzazione susseguitisi in questi anni, ad opera soprattutto di multinazionali, evidenziano la necessità che agevolazioni e finanziamenti vadano strettamente commisurati alla solidità e stabilità del progetto industriale, anche prevedendo il vincolo alla restituzione dei benefici ottenuti in caso di trasferimento della produzione in altro Paese. Fondamentale, poi, la scommessa sulle risorse umane come fattore chiave dello sviluppo, assumendo la consapevolezza che scuola, sistema formativo e ricerca sono l’infrastruttura essenziale per la crescita e per un efficace posizionamento nella nuova economia globale. Un modello di sviluppo inclusivo e sostenibile, che restituisca benessere all’intera comunità regionale, presuppone quindi una forte saldatura tra politiche industriali e politiche attive del lavoro, incardinata sul ruolo essenziale del sistema della formazione professionale quale partner operativo della regione nelle politiche attive del lavoro, nell’apprendimento permanente, nella formazione dei giovani e nel contrasto alla dispersione scolastica.
Il settore commerciale ha certamente scontato in questi anni il minor potere di acquisto delle famiglie ed il conseguente calo dei consumi, evidenziando situazioni di criticità sia nella grande, sia nella piccola distribuzione. La liberalizzazione del mercato del 2012 ha portato ad una concorrenza spietata tra le grandi aziende della distribuzione, senza però produrre incrementi occupazionali: i processi di riorganizzazione e riduzione degli organici hanno infatti interessato quasi tutte le catene della grande distribuzione, a dimostrazione della saturazione del mercato, nonostante l’ampliamento degli orari e delle giornate di apertura. Abbiamo così assistito ad un aumento esponenziale dei part-time – soprattutto di quelli involontari – accompagnato da regimi di flessibilità delle turnazioni che hanno reso sempre più precaria la conciliazione tra tempi di vita e di lavoro. Il Friuli Venezia Giulia sarebbe la “terra promessa” – così titolavano gli organi di stampa – quanto a presenze in regione della Grande Distribuzione, visto che 3 delle nostre 4 province si collocano nei primi 10 posti in Italia per superfici di vendita (e Udine è la prima assoluta).
A ciò, peraltro, ha fatto riscontro la chiusura di tanti piccoli negozi, con il conseguente impoverimento del tessuto urbano non solo quanto a servizi offerti, ma anche quanto a qualità della vita e a coesione sociale. Ma il settore maggiormente colpito dalla crisi degli ultimi anni è stato senza dubbio quello delle costruzioni che, a livello nazionale, ha visto dimezzarsi il numero delle imprese e degli addetti e affermarsi sempre più diffusamente situazioni di destrutturazione delle regole, di aumento dei falsi lavoratori autonomi e di crescita del lavoro irregolare. Intravvediamo, ora, alcuni segnali di ripresa: si tratta di segnali che vanno incoraggiati, anche perché quello delle costruzioni è il comparto con la maggiore capacità di impulso alla crescita degli altri settori dell’economia. Ma bisogna essere consapevoli che con decine di migliaia di immobili invenduti o non affittati in regione, l’edilizia residenziale è destinata a rimanere al palo, anche perché la nostra regione va orientandosi – correttamente, peraltro - al consumo del suolo pari a zero. In questo contesto, gli unici dati positivi per il settore sono riconducibili a lavori pubblici appaltati e che finalmente vengono cantierati. Ma il vero orizzonte è rappresentato dal passaggio dall’edilizia della crescita a quella del recupero, volta al risparmio energetico. Ciò che serve è quindi un grande piano strategico regionale per la ristrutturazione, l’adeguamento anti-sismico e il miglioramento energetico degli edifici, a cominciare dalle scuole. È per tutto ciò che la UIL del Friuli Venezia Giulia, insieme a CGIL e CISL regionali e in linea con le iniziative delle Confederazioni nazionali, ha avviato un percorso volto a determinare, in tempi rapidi e certi, le azioni di sistema utili a favorire il rilancio della regione.
A fronte delle nuove e vecchie situazioni di crisi aziendali che sono presenti sull’intero territorio regionale e investono soprattutto il comparto industriale, è necessario che la Regione adotti politiche capaci di favorire la crescita dell’economia e dell’occupazione, contrastando efficacemente la povertà e la marginalizzazione, fenomeni che mettono a rischio la coesione sociale del territorio e ne minano i percorsi di inclusione e integrazione. E dev’esserci consapevolezza da parte della Regione che un’azione di svolta, che sia davvero capace di imprimere un’inversione di tendenza tale da evitare un declino complessivo della Regione, non può che passare attraverso la valorizzazione del metodo del confronto fra le parti, nel rispetto, nella responsabilità e nell’autonomia del ruolo che le stesse rivestono. Come sempre, misureremo nei fatti la volontà della Giunta Regionale di mettere in atto un’azione condivisa e mirata di rilancio del sistema-regione.