L’invecchiamento della popolazione in Europa ed in particolare nel nostro Paese cresce molto rapidamente, lo dicono le statistiche e le previsioni: nel 2045 circa un terzo della popolazione italiana, il 33,7%, sarà over 65, il che ci rallegra da una parte in quanto a longevità siamo tra i Paesi in buona salute, ma ci preoccupa dall’altra poiché altri dati contribuiscono ad un allarmante squilibrio. Tra i molteplici fattori che determinano gli squilibri, primi fra tutti le stime riconducibili alla crescita della spesa per garantire servizi di assistenza alla popolazione anziana e la stagnazione demografica che contribuisce a mancati introiti al nostro sistema assistenziale. Ma anche i salari bassi con il conseguente impoverimento di ampie fasce sociali, le difficoltà socio economiche familiari e, dato più preoccupante, una previsione in crescita delle patologie, sono elementi di una crisi sociale alle porte a cui bisogna dare in tempo risposte e strategie adeguate: un nuovo welfare che sorregga l’assistenza e garantisca i bisogni essenziali nell’ottica di equità ed universalità.
Le criticità rappresentate da un Paese che invecchia così rapidamente deve avere un sistema di welfare attrezzato, altrimenti la sostenibilità finanziaria che ha caratterizzato il nostro sistema socio-sanitario entrerà in pericolo e la coperta non basterà per tutti. Quando parliamo di welfare attrezzato, ci riferiamo chiaramente a tutto il sistema, pubblico e privato, che dovrà definire obiettivi strategici per affrontare la sfida del diritto a vivere in salute. Da tempo nei dibattiti pubblici la questione è diventata centrale mettendo in evidenza le criticità che minano il nostro sistema sanitario e di assistenza. Indebolito dai continui tagli e misure restrittive e seppur colmato nell’aspetto sanitario dal welfare aziendale, il sistema assistenziale e di protezione sociale non ha trovato la giusta attenzione della politica per formulare un nuovo modello pubblico di intervento mirato, pur essendo il settore che assorbirà la maggiore spesa. In assenza quindi di una strategia, oggi il sistema assistenziale oltre ad essere carente di risorse ed inefficace nell’erogazione dei servizi, risulta per la quasi totalità a carico delle famiglie sia in ambito del sostegno economico, sia in ambito organizzativo e di cura.
Proviamo ad immaginare nel breve futuro cosa potrà accadere all’interno delle famiglie che, colpite da una crisi economica così lunga, non solo hanno intaccato patrimoni e propri risparmi, ma si trovano a far fronte all’incertezza che caratterizza il mondo del lavoro, ad un ribassato potere di acquisto dei salari e, da non sottovalutare, allo stravolgimento del loro assetto sociale con figli che non trovano lavoro e prolungano la loro permanenza in famiglia o che sempre più spesso sono migranti all’estero; la domanda è: in che modo potranno affrontare i costi e la cura della non autosufficienza? Vent’anni fa, quando il dibattito sulla non autosufficienza (Long Term Care-LTC) nel nostro Paese era ancora in fermento, furono presentate da soggetti politici, parti sociali ed esperti, numerose proposte normative a cominciare da quella che istituì nel lontano 1997, il “Fondo per le prestazioni di assistenza ai non autosufficienti” della Commissione Onofri. Indirizzate a vari interventi, sia per l’accesso alle prestazioni che per il sostegno e la governance del sistema, dal 1997 al 2018, un lungo elenco di proposte di riforma della LTC hanno tentato di stimolare la politica per mettere mano al riordino di una materia così complessa.
È bene ricordare però, che tra i primi, nel lontano 2005, i nostri sindacati CGIL, CISL, UIL dei Pensionati, depositarono in Parlamento la loro “Proposta di legge di iniziativa popolare-Piani di intervento integrati sulla non autosufficienza finanziata da un fondo nazionale“. Anche la “Riforma dell’assistenza sulla non autosufficienza” presentata dal Governo Prodi nel 2007 e quella presentata da Fioroni nel 2013 “Fondo per la non autosufficienza” contribuirono a più riprese a dare un sostegno per rivedere e definire gli interventi di tutela e sostegno alle persone non autosufficienti. Oggi, il nostro sistema pubblico affronta la questione LTC con una connotazione fortemente monetaria, separati dall’erogazione dei servizi socio-sanitari con interventi incentrati sull’erogazione di un assegno mensile, per cui abbiamo:
• un livello Nazionale con la misura dell’indennità di accompagnamento senza condizioni di reddito e quote sanitarie pari al 50% dei costi per il soggiorno nelle RSA (a carico del Servizio Sanitario Nazionale);
• un livello territoriale, sia in ambito regionale che comunale, dove vengono erogate prestazioni monetarie (voucher, assegni di cura, buoni sanitari) a copertura di servizi di assistenza domiciliare compresi quelli integrati con le forme di assistenza socio-sanitarie, e quote erogate dai Comuni legate all’ISEE per il soggiorno in Residenze protette. Sappiamo bene però che la non autosufficienza si presenta con vari livelli e con bisogni diversi, la necessità di un Piano Assistenziale Individualizzato (PAI) comporterebbe uno strumento di valutazione per determinare in maniera efficace ed efficiente l’insieme degli interventi (indennità e servizi) che sia in grado di dare risposte mirate ai bisogni su tutto il territorio. Le proposte di riforma per la non autosufficienza sono tutte concentrate sul diritto a beneficiare di prestazioni che, partendo dalla definizione dei livelli essenziali, vanno indirizzate per consentire l’accesso ad una rete di servizi ben distribuiti sul territorio. Una maggiore richiesta di prestazioni attraverso l’incremento di servizi, non comporta però l’automatismo dei livelli qualitativi e quantitativi in tutte le regioni. È bene rammentare le condizioni di alcuni territori del Sud, dove i servizi domiciliari o non vengono erogati, o sono ridotti al lumicino.
Le cause di questa carenza vanno ricondotte sicuramente, in questo caso, all’obbligo imposto alle regioni di garantire maggiori livelli essenziali di assistenza (LEA), obbligo che ha certamente consentito di raggiungere un numero maggiore di casi da assistere presso il domicilio ma, al contempo, di fatto ha comportato la riduzione delle ore di assistenza, rendendo così inadeguato e scarsamente efficace il servizio domiciliare. È necessaria quindi una diversa sinergia fra servizi sanitari e sociali per non creare frammentarietà e sovrapposizione a svantaggio di una adeguata assistenza. Un servizio domiciliare carente ha dato corso al proliferare di “assistenti familiari” che subentrano a sostegno delle famiglie che non ce la fanno; la diffusione di questo fenomeno ha creato non solo ambiti di lavoro non regolarizzato, ma spesso anche poco professionalizzato. Altro tema che deve essere affrontato ma che viene continuamente rinviato, è il riconoscimento di queste figure di sostegno alla cura.
Delle tre proposte di disegno di legge depositate da tempo e riprese ad ogni legislatura per comporre un testo unico abbiamo, da settembre del 2017, uno schema di testo unificato che è stato portato in Commissione, ma è fermo lì, senza una stesura definitiva nonostante il riconoscimento di fatto che è stato sancito dalla legge di bilancio del 2018 che ha istituito un Fondo ad hoc per il caregiver familiare, (20 milioni di euro l’anno per il triennio 2018-2020, incrementato fino a 100 milioni annui nel nell’ultima L. di bilancio per il triennio 2019-2021): la legge non c’è, ed il fondo resta blindato. È un elemento molto importante il riconoscimento normativo di tale figura, ad ogni tavolo ed occasione ribadiamo che quello del caregiver è un lavoro ed in quanto tale va riconosciuto in termini previdenziali. Inoltre, nell’ambito della tutela del familiare lavoratore il riconoscimento di tale figura, ci permetterebbe di attivare politiche contrattuali adeguate ed indirizzate sulla conciliazione, sulla flessibilità e sui tempi di lavoro e poiché spesso il carico di cura delle persone non autosufficienti ricade sulle lavoratrici, la questione risulta ancora più complessa ed investe più ambiti, dal lavoro alla salute, per cui più elementi dovranno convergere su un welfare mirato. Molte regioni si sono attrezzate ed hanno anche buone leggi ma, senza una politica di intervento nazionale, le norme regionali rischiano di risultare molto limitate. Il risultato è che il sistema per la non autosufficienza oltre ad essere costoso, è frammentario, disomogeneo, non sufficiente e di scarsa qualità. Senza una “visione attrezzata” le stime ci dicono che nel breve futuro dobbiamo sostenere e garantire:
• 3,900 milioni in più della spesa messa a regime per avvicinarci agli standard di qualità di assistenza dei Paesi del nord Europa;
• circa 3 milioni posti letto nelle RSA (oggi sul territorio nazionale sono solo 197.000 mila);
• aumentare le ore a disposizione per l’assistenza domiciliare ed affrontare i numerosi problemi legati al trasferimento delle risorse agli Enti Locali;
• recepire le raccomandazioni europee che ci richiamano a servizi efficienti ed al potenziamento dell’assistenza primaria. È chiaro che a fronte di questi bisogni, le risposte sono carenti ed il ricorso ad interventi privati è più che legittimo per poter fronteggiare e pianificare un intervento sulla non autosufficienza. Certamente si deve operare in modo da garantire a tutti, senza distinzione, il diritto alla buona salute e cura, e come Organizzazioni Sindacali siamo disponibili ad un confronto costruttivo per tutelare al meglio i nostri cittadini e lavoratori. La priorità, per affrontare il tema, deve partire dal principio di uguaglianza del diritto alle cure e all’assistenza e deve mantenere un carattere universale ed uniforme in grado di offrire una simmetria tra domanda ed offerta dei servizi.
Da ultimo e forse più importante è il tema delle risorse più volte enunciato e rivendicato che certo deve essere ottimizzato, ma c’è la necessità di investimenti sulla prevenzione che ha assunto una marginalità ingiustificata in questo Paese. Solo attraverso la prevenzione si potrà contenere la spesa, lo hanno capito da tempo i fondi sanitari e i fondi pensionistici integrativi che, consolidati da molti anni in gran parte dei contratti di lavoro, hanno diffuso la cultura preventiva e ai quali va il nostro riconoscimento, ma la politica deve ricondurre a sé un fattore determinante per la salute e la buona vita delle persone, restituendo centralità al “fattore prevenzione” attraverso una allocazione di risorse che non può essere ricompresa in quel misero 4,2% della spesa pubblica e che scontiamo con un incremento della disuguaglianza e dell’ inefficienza.