Non passa praticamente giorno senza che i mezzi di informazione si occupino di precari. Raccontano storie di professionalità ed eccellenza senza certezza di futuro. Storie di emigrazione in Paesi capaci di garantire stabilità e riconoscimento delle competenze. Storie dei tanti che, nonostante tutto, restano e resistono, decisivi per il funzionamento e la sopravvivenza delle Istituzioni, spesso con contratti poveri, continuando a lavorare come “volontari” nella speranza del successivo contratto. Il precariato ci indigna, perché nonostante tante lotte e mobilitazioni, è ancora troppo scarso il grado di tutele e di diritti dei precari, ed è troppo diffuso lo sfruttamento del lavoro precario anche nelle Università, negli Enti di Ricerca e nell’AFAM, istituzioni che dovrebbero garantire ed essere garantire in quanto produttori di progresso. Il nostro Paese non sa valorizzare una parte consistente della propria ricchezza, quel “capitale umano”
frutto di ingenti investimenti pluriennali - di Stato e famiglie in altra formazione. Ricerca e precariato sono ormai quasi un sinonimo. Anzi, precari sono diventati i sistemi: precario è l’Ente di Ricerca, precaria è l’Università e le istituzioni AFAM. Precarie sono generazioni di studiosi e laureati, giovani e meno giovani, diventati un “fenomeno” tipico e “strutturale” della nostra società. Un fenomeno tanto evidente da essere trattato perfino in chiave cinematografica, in una trilogia di film di grande successo (“Smetto quando voglio”). Queste storie danno evidenza alla gravità della situazione, in particolare in un Paese dalle grandi tradizioni e potenzialità culturali e scientifiche e che ha ancora l’ambizione di “competere”.
Non basta più denunciare quanto il precariato costi in termini di ingiustizia sociale e di perdita di opportunità di sviluppo per il Paese. Va cambiata la convinzione che la precarietà nella ricerca e nell’alta formazione siano ormai un fatto acquisito, che scuote le coscienze ma che è vissuto come una cosa normale, a cui “non c’è rimedio”. Questa situazione non è il frutto del fato, né tantomeno può essere ritenuta ovvia e necessaria. Nasce da scelte politiche ed investimenti economici insufficienti e/o sbagliati. Il caso italiano non trova analogie in altri Paesi ad economia avanzata (e neanche in molti altri tra cui quelli emergenti). Lo sviluppo passa ovunque per consistenti investimenti in Ricerca, Innovazione e Alta Formazione (soprattutto in tempi di crisi), numeri elevati di addetti, maggiori capacità di implementare attività di ricerca, livelli salariali più elevati. Sbagliati sono stati una serie di interventi sul mercato del lavoro, atti a consentire contratti “più flessibili”, a termine, con minori tutele e minori salari, nel settore privato come in quello pubblico. Sbagliate sono state le misure tese a contenere la spesa pubblica: spending review, taglio dei finanziamenti nei bilanci delle amministrazioni, blocco delle assunzioni, blocco del rinnovo del contratto nazionale. Una serie di prese di posizioni nel dibattito politico e culturale nell’ultimo decennio hanno poi fatto il resto. Il nostro sistema scientifico nazionale è stato descritto come un insieme di soggetti inefficienti (se non addirittura inutili) e da riformare, riducendone le risorse finanziarie per le attività istituzionali. La cultura è diventata un lusso che non ci si può permettere in tempo di crisi. Qualcuno affermò che stabilizzare un ricercatore significava farlo morire, quasi che la ricerca sia materia da “avventurieri”, incompatibile con sicurezza e stabilità. Qualcun altro che il ricercatore universitario dovesse essere solo “a termine”, ed è nata la legge voluta dalla Ministra Gelmini nel 2010. La chicca, che tutto ciò serviva per “premiare” finalmente il merito. Questa impostazione ha trovato consensi politici trasversali, nei Governi, maggioranze e minoranze, diventando un tratto comune nell’ultimo decennio. Ad esempio, l’indisponibilità nella scorsa legislatura di Governo e maggioranza ad intervenire sulla Riforma Gelmini si rileva anche nelle decisioni dell’attuale Esecutivo, che come responsabile del Dipartimento Università del MIUR ha nominato il Prof. Valditara, allora relatore di maggioranza di quella Riforma varata dal Governo Berlusconi.
La causa della condizione attuale dell’Università italiana sono sempre scelte e idee politiche sbagliate: anche qui, nulla c’entra il fato imprevedibile. Stando ai dati del MIUR, dal 2010 abbiamo assistito ad un decremento costante di docenti ordinari, ricercatori a tempo indeterminato (ora ad esaurimento grazie alla legge Gelmini) e del personale tecnico amministrativo. Ma sono cresciuti associati, ricercatori a tempo determinato, borsisti e assegnisti. Il risultato di questi flussi è devastante: in 7 anni, il numero degli addetti negli Atenei italiani si è ridotto del -6,5%, il numero complessivo di professori e ricercatori segna un -7,9%, il mondo accademico è costituito ormai da un 29,5% di associati e per ben il 51,6% da precari impegnati con diverse tipologie contrattuali (ricercatori, assegnisti, borsisti) nelle attività istituzionali di docenza e ricerca. Il taglio del personale, sommato all’assenza di adeguato reclutamento, ha comportato una crescita dell’età media a 52 anni (59 anni per gli ordinari, 47 anni per i precari). Chi ha sostenuto che con certe riforme si voleva togliere potere ai “baroni” e premiare il “merito”, oggi non può negare che i numeri e le storie dei precari testimoniano, crudamente, che la vuota retorica nascondeva un disegno di complessivo ridimensionamento dell’università italiana. Il fenomeno del precariato resta un problema negli Enti Pubblici di Ricerca anche dopo gli interventi di stabilizzazione attuati e/o in corso di realizzazione. Le Commissioni Scienza e Cultura di Camera e Senato, al termine di una approfondita indagine conoscitiva, sottolinearono nel 2014 all’unanimità la gravità del “fenomeno” e la urgenza di un intervento dei Governi. Secondo le nostre stime, all’inizio del 2017 su circa 30.583 addetti, il 13,8% era costituito da personale a tempo determinato (ricercatori, tecnologi, tecnici ed amministrativi), l’11,0% da assegnisti, il 6,7% da contratti di collaborazione: il 31,5% della forza lavoro risultava precaria, e questi numeri non tengono conto dei lavoratori presenti con gli infiniti ulteriori “strumenti di impiego”. Il Governo Gentiloni ha avviato il processo per la riduzione del precariato (art. 20 del D.LGS. 75/17 e Legge n. 295/17 -Legge di Bilancio 2018). Un ulteriore strumento è, per gli EPR, il D.LG. 218/16, che in presenza di risorse e di specifiche autorizzazioni ha previsto maggior autonomia, consentendo modalità di assunzione più rapide e non vincolate al blocco del turnover. C’è però il rischio che gli sforzi normativi prodotti nell’ultimo scorcio del precedente Governo restino inchiostro sulla carta, per un nefasto intreccio di norme. Il processo di stabilizzazione dei precari negli EPR è stato rallentato, nel corso del 2018, a causa di una norma (art. 23, comma 2 del D.LGS. 75/17) che blocca al 2016 il livello massimo del salario accessorio nelle Amministrazioni Pubbliche; quindi non consente la sua integrazione proporzionale rispetto alle nuove assunzioni. Da un lato quindi gli Enti hanno a disposizione norme e risorse specifiche già stanziate per stabilizzare i precari, dall’altra rischiano di non poterle utilizzare perché non si può superare il limite sul salario accessorio fissato al 2016! Le Amministrazioni dovrebbero quindi decidere se bloccare le assunzioni dei precari, oppure assumerli ma riducendo il salario di tutto il personale, di ruolo e precario. Chi, tra gli Enti più coraggiosi, aveva anticipato nel 2017 le assunzioni possibili grazie alla “norma speciale” 218/16 (ad es. INVALSI), proprio nei giorni in cui si scrive questo articolo sta sperimentando il rischio conseguente ai rilievi dei Revisori interni, che vorrebbero far recuperare le somme “non dovute” e pagate ai lavoratori già dipendenti e neo assunti! E c’è chi (ad es. INAPP) intenderebbe assumere con l’avallo dei sindacati al taglio dell’accessorio in contrattazione! Tutto questo appare certamente incredibile, a conferma di quanto sia confusa e contraddittoria la fase attuale. Auspicavamo che il Ministro della Funzione Pubblica, On.le Giulia Bongiorno, e il MIUR si impegnassero affinchè, oltre alle stabilizzazioni, nel decreto “semplificazioni” fosse inserita una norma per rendere possibile la piena applicazione della lex specialis D.LGS. 218/16 (art. 9 e 12) in tema di assunzioni, quindi senza danni per i lavoratori nuovi e già di ruolo. Purtroppo così non è stato, ed il DdL “semplificazioni” sarà approvato senza le misure attese e promesse: l’ennesima prova di scarsa sensibilità nei confronti della ricerca pubblica e della necessità di investimenti seri in tema di scienza, innovazione, tecnologia, a partire dalla valorizzazione del personale.
O peggio, di incomprensione delle differenze. Momenti come questo confermano la necessità di quell’Agenzia Nazionale per la Ricerca, attesa da lustri e annunciata dal Ministro MIUR Bussetti, che ci auguriamo sia utile per una migliore allocazione di risorse tra tutti i 22 enti di ricerca e i loro 7 ministeri vigilanti, per la “messa in rete” di competenze e per sfruttare al meglio almeno le risorse europee in attesa che arrivino quelle da partnership con i privati. Infine, i precari del sistema AFAM rientrano nelle procedure di stabilizzazione del personale “statale”: in base alla normativa prodotta, tutti quelli che hanno 3 anni entreranno per legge in graduatoria nazionale. Nel processo di stabilizzazione rientreranno anche i precari degli istituti cosiddetti “pareggiati” ed “ex pareggiati” che tra l’altro, pur avendo anch’essi ottenuto una definizione di legge per un processo di statizzazione, aspettano i decreti attuativi, già finanziati! Il paradosso è che mentre i soldi per il processo di statizzazione resteranno inutilizzati fino a conclusione del processo, molti docenti sono nel frattempo obbligati a insegnare senza certezza di stipendio: avviene a singhiozzo al Bellini di Catania, al Paisiello di Taranto, al Briccialdi di Terni. La chicca: oltre che precari che lavorano senza certezza di stipendio, in questi istituti pareggiati i lavoratori non hanno ancora percepito l’intero incremento e adeguamento stipendiale per il rinnovo contrattuale, firmato il 19 aprile scorso. Che dire di più, se non che questo appare un Paese in cui disuguaglianze ed ingiustizie sono troppe? I nostri Settori RUA hanno bisogno urgente di interventi: rilanciarne il ruolo, valorizzarne il personale, considerarli un tesoro e non un peso. Sosteniamo da tempo, con impegno costante e mobilitazioni, questa battaglia, nella consapevolezza che Cultura, Scienza ed Innovazione siano indispensabili per garantire sviluppo sociale ed economico al nostro Paese. Chiediamo che la politica coniughi competitività, crescita dell’occupazione e giustizia sociale anche e proprio grazie alla trasversalità ed al valore intrinseco dei nostri settori e di ciò che fanno e rappresentano. La scienza non conosce confini: gli scienziati non guardano a razze, colori, religioni: si confrontano e collaborano su processi e contenuti, cercano chi ne sa di più e fanno gruppo. Anche in questo il valore della scienza è un patrimonio incommensurabile, indispensabile per costruire un futuro di progresso e pace.