Attualità
Quota 100 per il pubblico impiego
di Sara Tucci pagina 30
L’importanza della tematica dovrebbe coinvolgere nella discussione tutto il Paese perché si ha la sensazione che pochi conoscano la reale dimensione del problema e quali rischi ci potrebbero essere per l’unita del Paese stesso, per l’attuale impianto istituzionale, per il mantenimento del modello di welfare che conosciamo e per la stessa contrattazione nazionale.
Oggi i principi di giustizia, di uguaglianza e solidarietà, di coesione, del diritto al lavoro, delle tutele rischiano di essere considerati ormai superati. I primi scossoni ai principi di solidarietà sono stati dati dalle politiche neo liberiste che hanno preteso che lo Stato ritirasse il suo perimetro di intervento, senza considerare che così facendo non hanno altro che contribuito all’impoverimento dei cittadini e di quel Welfare State contro cui quotidianamente in questi anni si sono scagliati liberisti e monetaristi, in un movimento divenuto trasversale a quasi tutti gli schieramenti politici. Come se ciò non bastasse, i referendum proposti da alcune regioni per acquisire più autonomia hanno ancor più messo in discussione il ruolo unificante dello Stato e di produttore di benessere per tutti i cittadini. A quest’opera di smantellamento del vecchio sistema di welfare state, si è accompagnata una altrettanto pervasiva campagna di disfattismo nei confronti del Parlamento, delle Istituzioni e dei partiti, che ha minato la credibilità agli occhi dei cittadini delle forme di rappresentanza e di tutto quello che è pubblico. Inevitabilmente, a forza di ripetere certi concetti contro tutti, compresi i sindacati, questi finiranno per attecchire sempre più nelle nuove generazioni, anche grazie a quella sempre più generalizzata perdita della memoria storica delle lotte popolari per l’unità e la democrazia e delle battaglie dei lavoratori contro lo sfruttamento e per l’uguaglianza dei diritti. La mancata soluzione dei problemi istituzionali, dei quali si è discusso per anni, e l’inadeguatezza dei provvedimenti adottati, stanno disgregando sempre più i valori sociali e la stessa credibilità dello Stato.
Non si tratta di un problema di poco conto, anzi se ne parla troppo poco! Riguarda tutti noi, perché si stanno sgretolando goccia a goccia i pilastri su cui si è costruito il nostro modello di società.
Rousseau, nel Contratto sociale, sosteneva: “Quando il nodo sociale comincia a rallentarsi e lo Stato ad indebolirsi, quando cominciano a farsi sentire gli interessi particolari e le piccole società ad influire sulla grande, allora l’interesse comune si altera e trova oppositori; l’umanità non regna più nei voti; la volontà generale non è più la volontà di tutti; si sollevano contraddizioni, contese; e il miglior parere non è approvato senza dispute”.
Da tempo la Uil si è interrogata su queste problematiche, considerando che nel nostro Paese si sta incrinando il fondamento stesso dello Stato di diritto, la sua legittimazione razionale, fondata sull’adesione alle regole formali e alle procedure di sistema. La crisi dello Sato investe ormai problemi elementari della vita collettiva. Siamo in presenza di un degrado così profondo dei rapporti basilari della vita civile, quali le istituzioni rappresentative, la pubblica amministrazione, il sistema politico, gli interessi sociali organizzati, per cui ogni singolo momento del tessuto connettivo socio-politico si trova ad essere coinvolto nella crisi del suo immediato interlocutore istituzionale, attraverso una progressiva cancellazione di ruolo e di rappresentanza che lentamente, passo dopo passo, sembra mettere in discussione i principi stessi da cui ha preso origine l’esperienza della Stato repubblicano. Purtroppo la cultura della divisione non è nata oggi ma viene da lontano, quando la Lega iniziò a parlare di secessione e della necessità di mantenere nel territorio le risorse che si creavano nello stesso. La battaglia contro Roma “ladrona”, contro le maestre meridionali, contro il sud, le adunate di Pontida, etc erano considerate da molti semplice folclore, poi all’aumentare dei consensi al nord, invece di contrastare questa controcultura, si è pensato, addirittura da parte del governo di centro-sinistra, di cavalcarla e cosi, velocemente a fine legislatura, si è modificato il Titolo V della Costituzione, senza nessuna possibilità di confronto.
La motivazione risiedeva nella volontà di battere le politiche di secessione attraverso la legiferazione di un accentuato decentramento dei poteri, con la modifica dell’art. 116 della Costituzione. Norme che furono rapidamente approvate per rispondere, come sta accadendo oggi, ad un limitato numero di cittadini italiani. La scelta di avere maggiore autonomia da parte delle tre regioni che l’hanno chiesta, sta generando valutazioni opposte fra chi è a favore e chi la ritiene sbagliata. Quello che ci preme, però, è che il tema dell’autonomia esca dalle nebbie, proprio perché per i riflessi che potrà avere su tutto il sistema Paese, la discussione non può restare chiusa in un confronto fra Governo e le stesse regioni che la richiedono. Il cambio della struttura, del ruolo e della funzione dello Stato e il passaggio alle regioni di moltissime competenze statali1 dovrebbe caratterizzarsi da un’approfondita discussione aperta a tutti i cittadini. L’evoluzione del provvedimento legislativo, che recepirà gli accordi fra il governo e le tre regioni coinvolte, è rimasta, invece, volutamente segretata, e questo naturalmente ci lascia qualche preoccupazione. I punti più controversi dell’attuale ipotesi politica di rimodellare i poteri delle regioni si individuano proprio nel superamento di quell’idea di comunità plasmata dalla Costituzione nei suoi valori di coesione, solidarietà e pari opportunità, garantiti a tutti i cittadini su tutto il territorio nazionale per mezzo dello Stato e dell’esercizio delle sue funzioni. Un ruolo, quello dello Stato, che permette ai suoi consociati di riconoscersi come cittadini di quella comunità. Il vero problema, proprio perché noi non abbiamo un approccio ideologico di rifiuto in assoluto ad un decentramento di funzioni al territorio, resta quello di stabilire quali materie attribuire alle regioni e quali lasciare saldamente tra le prerogative dello Stato, in qualità di garante dei diritti costituzionali riconosciuti a tutti i cittadini a prescindere dal luogo di nascita o residenza. Il rischio, infatti, è che quell’accezione “rafforzata” o “differenziata”, se estremizzata, potrebbe portare ad una gestione dei servizi essenziali non uguale in tutti i territori ed equa per tutti i cittadini. Già l’etimologia delle parole “autonomia rafforzata o differenziata” lasciano presupporre differenze e non omogeneità.
Per noi che veniamo dalla cultura laica e socialista sostenere il decentramento di alcune funzioni non ha mai preoccupato anzi abbiamo ritenuto essenziale condividerlo e batterci per avvicinare le funzioni statali ai cittadini nei vari territori. Per questo la richiesta di maggiore autonomia sarebbe condivisa da noi se si affermasse nel rispetto degli artt. 116, 117 e 119 della Costituzione, perché solo così facendo avverrebbe negli ambiti di una garanzia per tutti, seppur con qualche margine di ambiguità sicuramente da specificare. L’esperienza passata del decentramento regionale dimostra che il sistema non è perfetto anzi avrebbe bisogno certamente di modifiche soprattutto nel funzionamento dello Stato. Nel qual caso si procedesse, quindi, in tal senso, cambiando completamente l’organizzazione, il finanziamento, la struttura della pubblica amministrazione, sarebbe essenziale mantenere però una regia centrale in grado di assicurare i diritti costituzionalmente riconosciuti a tutti i cittadini dello Stato italiano. Quello che si prospetta oggi, invece, lascia pensare che saremmo di fronte, come ben ha scritto il Prof. Marco Cammelli, “non al decentramento per alcuni ma allo sgretolamento per tutti”2.
Difatti, le diversità territoriali, venendo meno il ruolo dello Stato nella gestione solidale a tutela della pari fruizione dei servizi e delle funzioni della pubblica amministrazione, porterebbero ad alimentare, quasi inevitabilmente, ulteriori emarginazioni per le realtà più deboli. Non vorremmo che la parte più ricca del Paese potesse egoisticamente crearsi un alibi col dire che con questa operazione, date le distanze e disfunzioni già esistenti nel pubblico, non cambierebbe niente, e che quindi è giusto, almeno laddove il sistema funziona, riconoscere la possibilità di continuare a fare meglio.
Scrive il Prof. Giannola: “In estrema sintesi è possibile che senza riforme costituzionali, inizi un percorso verso un sistema confederale nel quale alcune regioni si fanno Stato, cristallizzando – ed è solo l’inizio – diritti di cittadinanza diversi in aree del paese diverse… sempre che di paese si possa continuare a parlare3”.
Per questo ci preoccupa questa logica della divisione e dell’affermazione dei principi dell’egoismo. Siamo disponibili a discutere quali forme di decentramento realizzare, quali materie trasferire alle regioni e quali mantenere allo Stato, confermando però quello che per noi è fondamentale e cioè garantire equamente su tutto il territorio nazionale sanità, assistenza, scuola e istruzione a tutti. Il momento storico che viviamo, e le cronache politico sociali lo dimostrano, stenta ad aggregare interessi diversi e individuali sotto valori comuni e condivisi, soprattutto a causa della frammentazione delle rivendicazioni e degli egoismi soggettivi, amplificati dai nuovi modelli sociali. Difatti, in questo contesto, in mancanza di una ridefinizione delle garanzie di coesistenza delle differenze culturali e di valori correttamente contrapposti nella dialettica politica, che va risollevata con atti concreti di tutela dell’interesse collettivo e non di quelli particolari, difficilmente si potranno trovare convergenze che diano alle diversità economiche sociali e politiche il senso di una sintesi ideale che le accomuni nello Stato. Per noi, a livello centrale, lo Stato deve conservare, anzi rafforzare sì in questo caso, le sue funzioni di indirizzo, di ordinamento, di programmazione generale e di amministrazione di quelle prerogative nazionali non decentrabili, quali l’istruzione, la sanità, l’assistenza, etc. mentre, a livello periferico, l’amministrazione regionale deve esser titolare di tutte le competenze, legislative, di programmazione e organizzazione, utili all’esercizio delle proprie funzioni e di quelle che lo Stato le trasferisce.
Noi continuiamo a pensare che lo Stato debba mantenere, pur in un’articolazione dei poteri, un raccordo centrale sulle politiche che si attui mediante poteri di coordinamento, controllo, riequilibrio e di supplenza in funzione di tutela e solidarietà nazionale, non abbandonando i suoi compiti costituzionalmente riconosciuti (art. 120 Cost). Uno Stato, insomma, in grado di garantire funzioni strategiche e di sistema, sedi collaborative e azioni di supporto alle realtà più deboli, di cui i trasferimenti a finalità perequativa rappresentano solo una parte. Abbiamo visto come è andata con la sanità, dove venti regioni si sono strutturate in modo autonomo, non facendo altro che acuire le distanze tra realtà sempre più efficienti ed altre sempre più in dissesto. Si è dato il là a una sorta di pellegrinaggio sanitario di famiglie che, non potendo essere curate nei luoghi di residenza e in particolare nel mezzogiorno, si sono viste costrette a recarsi in altre regioni che garantivano loro cure adeguate. Per quel che riguarda poi la devoluzione dell’istruzione, da parte nostra non saremo mai disponibili ad accettarla e non a caso si è aperto nel Paese un dibattito molto acceso sul punto. Il nostro sindacato di categoria UilScuola-Rua fin da subito, poi anche unitariamente, ha espresso il suo dissenso, che noi condividiamo e sosterremo con tutte le nostre azioni. Anche se teniamo a precisare che questa partita non riguarda solo l’istruzione ma coinvolge tutti i settori, tutti i servizi e tutti i cittadini, non potremmo mai condividere, però, che la scuola e l’università, per l’importanza che hanno nel sistema formativo della cittadinanza, possano smarrire la loro unità nazionale in una spaccatura tra regioni con programmi diversi e orientamenti diversi.
Addirittura con la possibilità di avere insegnanti regionali, con contratti regionali e con l’indizione di concorsi locali e conseguenti assunzioni territoriali. Sarebbe la fine di quelle pari opportunità formative che tanto hanno fatto crescere questo nostro Paese. Secondo uno studio della redazione di Tuttoscuola, almeno un quinto del personale totale della scuola (225 mila persone), che conta un milione di lavoratori, potrebbe, in prima battuta, passare alle tre regioni del Nord che chiedono maggiore autonomia. Veneto e Lombardia nelle bozze d’intesa stabiliscono che “la Regione definisce annualmente il fabbisogno di personale docente e indice periodicamente procedure concorsuali”, quindi potranno emanare autonomamente propri bandi per il reclutamento del personale scolastico e assumere direttamente i loro insegnanti. Sarebbero immediatamente regionalizzati i neo assunti e il personale con contratto a tempo determinato. Il restante personale potrà volontariamente chiedere di passare dallo Stato alla Regione.
Qualche commentatore, poco interessato a verificare bene, ha scritto che i sindacati non vogliono affrontare il tema perché i propri iscritti delle regioni del Nord divergerebbero da quelli delle regioni escluse da questo progetto di riorganizzazione dei poteri. È chiaro che quando si liscia il pelo all’egoismo e si divide un Paese, chi è più tutelato guarda a sé stesso con un’accentuazione del suo interesse particolare, ma noi che siamo, invece, interessati a difendere l’omogeneità dei diritti nella solidarietà e nella coesione, vogliamo e dobbiamo favorire una grande campagna di informazione sul tema. Non a caso lo abbiamo inserito nella nostra piattaforma unitaria, perché il rischio della frammentazione, non solo delle infrastrutture immateriali e materiali ma anche delle politiche di sviluppo e degli investimenti, sarebbe certo per effetto del frazionamento in tanti centri autonomi. Vediamo, però, come si è sviluppato l’iter procedurale e quali conseguenze si prospetterebbero sulla scorta di quanto trapelato.
Tutto nasce con la modifica del Titolo V della Costituzione del 2001, che avevamo fra l’altro contestato già allora, e precisamente con quella modifica dell’art. 116 che accennavo in premessa. Il 28 febbraio 2018 Veneto e Lombardia, a seguito degli esiti dei rispettivi referendum regionali (dal valore meramente consultivo), e l’Emilia Romagna, dopo l’approvazione diretta da parte dell’Assemblea legislativa, hanno siglato una pre-intesa con l’allora Governo Gentiloni per vedersi attribuite ulteriori “forme e condizioni particolari di autonomia”, invocando l’applicazione dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione e quindi della c.d. autonomia differenziata.
La disposizione appena citata circoscrive le materie su cui è possibile negoziare, riferendosi a quelle contenute nell’art. 117 comma terzo (a legislazione concorrente Stato-Regioni) e ad alcune specifiche contenute nel secondo comma (a legislazione esclusiva statale) inerenti all’organizzazione della giustizia di pace, alle norme generali sull’istruzione, alla tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali. Il governo in carica, dal canto suo, ha dato un’accelerata a questo processo, esprimendo la volontà, già chiara nel contratto di governo, di approvare quanto prima i provvedimenti sul regionalismo differenziato, dando così seguito ai procedimenti già attivati in tre Regioni da circa un anno. Stessa espressione di volontà è stata messa nero su bianco nel DEF 2018: “una priorità è costituita dall’attuazione dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione concernente l’attribuzione di forme e condizioni particolari di autonomia alle Regioni a statuto ordinario. Sulla questione è già stato avviato un percorso con tre Regioni (Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna). Si tratta, quindi, di portare a compimento l’attuazione di disposizioni così rilevanti per il sistema delle autonomie territoriali del nostro Paese.”
E così in quest’ultimo periodo si sono definite, in segreto e in un silenzio preoccupante, le intese con le tre regioni nell’intento di presentare il disegno di legge per l’approvazione in Parlamento, che avverrà a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera. Si tratta, infatti, di una legge rinforzata che, secondo prassi, non prevede possibilità di emendamenti ma una mera espressione di voto: si o no. Le stesse pre-intese, del resto, hanno stabilito che l’approvazione della legge deve avvenire in conformità al procedimento previsto per le intese tra lo Stato e le confessioni religiose. Procedura che presenta analogie con quella di ratifica ed esecuzione degli accordi internazionali.
Per fortuna qualche spiraglio di buonsenso sembrerebbe esserci ancora, come si intravede dal dibattito di questi giorni. Si è avviata finalmente qualche discussione, anche se ancora sporadica, e qualche altra Regione si è fatta sentire. Il Presidente Conte ha precisato opportunamente, in un intervento al Senato, che non si prevedono riferimenti all’introito fiscale e che saranno rispettati non solo i costi standard ma anche i livelli essenziali delle prestazioni in tutti Italia. Sono proprio queste alcune delle preoccupazioni che affronteremo successivamente. Quello che affermiamo, da parte nostra, è che tutto avvenga nel rispetto dei principi dell’art. 119 della Costituzione: il rispetto dell’equilibrio di bilancio e l’obbligo di concorrere all’osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea; il principio della disponibilità di risorse autonome o comunque non vincolate e in ogni caso idonee all’integrale finanziamento delle funzioni pubbliche attribuite; l’impossibilità di ricorrere all’indebitamento se non per finanziare spese di investimento e l’istituzione da parte dello Stato un fondo perequativo. La nostra preoccupazione veniva già dalle pre-intese sottoscritte l’anno scorso, le quali avevano come elementi in comune: la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, la tutela della salute, l’istruzione, la tutela del lavoro, i rapporti internazionali e con l’Unione Europea. I tre accordi preliminari si riservavano però la possibilità di estendere, in un momento successivo, il negoziato ad altre materie e così è accaduto, arrivando i testi oggi al vaglio ad interessare in sostanza la totalità delle ventitre materie devolvibili dell’art. 116. Le maggiori perplessità, però, si incentrano soprattutto sulle forme di finanziamento, essenziali all’esercizio delle competenze trasferite.
Il Veneto, per citarne una, prevedeva nella sua premessa: il riconoscimento di quote di compartecipazione al gettito dei tributi erariali riferiti al territorio che le parti si riservavano di individuare nella successiva fase della trattativa e l’individuazione delle forme di finanziamento per far fronte ai fabbisogni derivanti dalle “ulteriori” competenze riconosciute alla regione. A tal fine, ha proposto di calcolare i “fabbisogni standard” non solo tenendo conto dei bisogni specifici della popolazione e dei territori ma anche del gettito fiscale degli stessi e cioè della ricchezza dei suoi residenti.
Tornando alle materie da finanziare, la Regione Veneto ha chiesto anche di potere avere l’esclusività su una ulteriore serie di tematiche: dall’offerta formativa scolastica alla scelta degli insegnanti su base regionale; dai contributi alle scuole private ai fondi per l’edilizia scolastica; dal diritto allo studio e dalla formazione universitaria alla previdenza complementare, dai contratti con il personale sanitario ai fondi per il sostegno alle imprese; dalla protezione civile ai Vigili del Fuoco; dalle strade, autostrade, porti e aeroporti alla programmazione dei flussi migratori, etc. In questo modo, è chiaro che cadrebbe la competenza statale su molti servizi pubblici nazionali. Un’altra preoccupazione non da poco, deriva proprio dalla volontà di maggiore autonomia nella gestione del personale dipendente della sanità. Questo potrebbe vanificare anche la contrattazione nazionale, prefigurando un sistema di trattamenti retributivi regionali differenziati, con il rischio di una progressiva convergenza, naturalmente verso il basso, dei valori economici degli stessi salari della sanità regionale pubblica e privata. Le intese nella parte che racchiudono le disposizioni generali sono sostanzialmente identiche.
Gli accordi si riconoscono una durata pari a 10 anni, al termine dei quali l’intesa cessa i propri effetti, che, solo dopo aver effettuato nel biennio la “verifica dei risultati fino a quel momento raggiunti”, potranno esser eventualmente oggetto di rinnovo o rinegoziazione. Si pone altresì una modificabilità dell’intesa nel corso del periodo di vigenza ammissibile nell’ipotesi in cui “nel corso del decennio si verifichino situazioni di fatto o di diritto che ne giustifichino la revisione” e a condizione che sulle modifiche ci sia accordo tra lo Stato e la regione interessata. Quindi, se passasse così, significherebbe che non ci sarebbero le condizioni per cambiarla, salvo stessa accettazione delle regioni firmatarie. È ovvio che sorgono forti dubbi sulle possibilità di passi in dietro in corso d’opera, perché una volta fatta, a prescindere dai risultati, per dirla brutalmente, bisognerà tenersela. Per quanto riguarda le risorse, una fantomatica Commissione paritetica Stato-regione provvederà a determinare le risorse da assegnare o trasferire alla regione, senza nessun intervento del Parlamento, del Governo e della conferenza Stato – regioni. In sostanza, le sarebbe dato un potere che è essenzialmente politico. Il criterio per la ripartizione delle risorse finanziarie sarà quello della compartecipazione o riserva di aliquota al gettito di uno o più tributi erariali maturati nel territorio regionale, in una quantificazione tale da consentire alla Regione di finanziare integralmente le funzioni pubbliche ad essa attribuite. La Ministra Stefani ha affermato che inizialmente il prelievo fiscale trattenuto sul territorio sarà equivalente al trasferimento che lo Stato già destina alle regioni per le competenze esercitate in tali regioni, appunto inizialmente! Il parametro di riferimento, da principio, sarà quindi quello della spesa storica sostenuta dallo Stato nella regione, riferita alle funzioni trasferite o assegnate.
Tale criterio, tuttavia, sarà oggetto di progressivo superamento a beneficio dei fabbisogni standard, da definire entro un anno dall’approvazione dell’Intesa e ad ogni modo misurato in relazione alla popolazione residente e al gettito dei tributi maturati nel territorio regionale in rapporto ai rispettivi valori nazionali. È proprio nel delicato passaggio tra questi due criteri di ripartizione delle risorse che si insidia il rischio di incappare in un forte aggravio delle disparità già purtroppo esistenti nel territorio nazionale, tra Regioni del nord, storicamente più ricco e con gettito fiscale maggiore, e Regioni del centro-sud Italia. Questo farebbe venir meno proprio i concetti di unità dello Stato e di tutela e garanzia eguale per tutti i cittadini, che fino ad oggi, anche se con diversità e disuguaglianze, hanno rappresentato e costituito comunque un livello generale di benessere.
Diversità che sarebbero più accentuate sia per il venir meno della garanzia dello Stato sia per il fatto che alcuni cittadini sarebbero più tutelati rispetto ad altri, solo perché abitano in una regione più ricca. Su questo punto, tra l’altro, è illuminante il Prof. Viesti che scrive nel suo libro: “L’enfasi sul residuo fiscale, piuttosto nasconde che la spesa pubblica pro-capite (totale, dello Stato, delle regioni, e degli Enti locali) non è uguale in tutte le regioni… La differenza fra Sud e Centro-nord deriva da una spesa pensionistica molto minore… ma deriva anche da una minore spesa in molti importanti servizi… Tutti i dati disponibili indicano che i cittadini delle regioni più deboli godono di un minore livello di servizi pubblici, in quantità e qualità, rispetto agli altri italiani, particolarmente nella sanità e nell’assistenza4”. Una chiara violazione dei principi di uguaglianza scolpiti nella Costituzione.
Del resto, la Corte Costituzionale ha più volte denunciato che nessun Governo, dal 2001, ha trovato tempo per definire i c.d. LEP, i livelli essenziali delle prestazioni sociali e civili, unico modo per mantenere quella garanzia di uguaglianza di trattamento per tutti i cittadini italiani, ovunque risiedano. Ebbene, abbiamo già fatto presente come le materie oggetto di negoziato siano mano a mano aumentate durante trattative passate fin troppo sotto silenzio. Vediamo di farci un’idea sulla portata del fenomeno di cui stiamo parlando. Per quanto riguarda le politiche del lavoro, le Regioni in questione avranno autonomia legislativa e organizzativa (e corrispondenti stabili risorse finanziarie) in materia di politiche attive del lavoro. Vincolo sarà il rispetto dei livelli essenziali delle prestazioni come definiti dal decreto legislativo n. 150/2015. Nell’accordo con la Regione Lombardia si prevede che i centri per l’impiego svolgano attività di orientamento e di ausilio nei confronti dei disoccupati e dei lavoratori. Nella bozza della regione Veneto si legge anche di un eventuale esercizio delle funzioni di ammortizzatori sociali, d’intesa con il Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale. In quella dell’Emilia- Romagna si fa riferimento alla promozione di contratti di solidarietà espansiva. Per quanto concerne l’istruzione, le pre-intese dello scorso febbraio prevedono che le Regioni potranno avere competenza sulla programmazione dell’offerta di istruzione regionale. Si stabilisce poi l’istituzione di un ruolo regionale in cui viene a confluire il personale in servizio, con le annesse risorse dovute per i trattamenti economici. In questo contesto, si inseriscono le funzioni di tutela del
patrimonio edilizio scolastico.
Inoltre, si assegnano la competenza legislativa a realizzare un sistema integrato di istruzione professionale e di istruzione e formazione professionale. Ed ancora, competenza a programmare l’attivazione di un’offerta integrativa di percorsi universitari per favorire lo sviluppo tecnologico, economico e sociale del territorio e la possibilità di istituire dei fondi regionali. Tutto questo non può che far invocare a gran voce, o forse meglio ricordare, che il diritto all’istruzione è un diritto universale sancito dalla nostra Carta Costituzionale che deve essere assicurato su tutto il territorio nazionale, nell’obiettivo di preservare la qualità e la continuità degli interventi, tenendo conto delle specificità territoriali già assicurate dall’autonomia scolastica prevista a sistema vigente. Quello che si paventa non è un semplice decentramento amministrativo ma una vera e propria minaccia per il sistema scolastico pubblico che, nonostante le molteplici difficoltà, tiene ancora unito il Paese nei suoi valori e nella sua cultura. Inevitabilmente questo processo inasprirà le disuguaglianze, creando scuole di serie A e di serie B, soprattutto in quei territori dove la scuola già soffre pesantemente di carenze di personale, di precarietà, di edifici fatiscenti etc. Sul tema della salute, le Regioni avranno una maggiore autonomia in vari campi: ad esempio: la rimozione di specifici vincoli di spesa in materia di personale stabiliti dalla normativa statale e la possibilità di stipulare - per i medici - contratti a tempo determinato di specializzazione, etc. È innegabile che il nostro SSN stia soffrendo da tempo. I ripetuti mancati finanziamenti lo hanno progressivamente indebolito, aggravando le già importanti disuguaglianze sociali e territoriali esistenti nel Paese, ma nonostante ciò risulta essere ancora uno dei migliori servizi sanitari, garantendo una copertura universale e posizionandosi ai primi posti - nel contesto dei Paesi OCSE- per accesso alle cure e al quarto posto per aspettativa di vita. A riforma attuata, quindi, l’esistenza del servizio sanitario nazionale sarà messa in discussione, la sua funzione solidaristica e redistributiva verrà meno, aggravando iniquità e disuguaglianze e minacciando, pertanto, l’esigibilità del diritto alla salute costituzionalmente garantito (ex art. 32). Non è difficile capire che la disgregazione del SSN comporterà tutta una serie di effetti negativi che verosimilmente colpiranno le altre Regioni, in particolar modo quelle più deboli sul fronte socio-sanitario. Questo perché le Regioni richiedenti non avranno solo più poteri ma, per far fronte alla loro gestione, dovranno disporre di più risorse, pertanto, una quota sempre maggiore del gettito fiscale raccolto sul proprio territorio, che oggi viene trasferito alle casse dello Stato, verrà trattenuta dalle Regioni stesse. Un gettito fiscale che verrebbe quindi di fatto sottratto alla fiscalità generale e al finanziamento dei servizi dei cittadini delle altre Regioni italiane, indebolendo di conseguenza il meccanismo della perequazione territoriale. Per la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, le funzioni sono comunque specifiche da Regione a Regione.
Siamo di fronte a un ampliamento di poteri nelle materie di: difesa del suolo; tutela delle acque dall’inquinamento e gestione delle risorse idriche; gestione dei rifiuti. In questo quadro si inseriscono anche le competenze legislative e amministrative in materia di incentivazione delle politiche energetiche. Nelle intese si riscontrano vari richiami sia alla tutela del paesaggio che alla pianificazione urbanistica. Eppure la competenza affidata in via esclusiva allo Stato centrale è servita sino ad oggi a delimitare i confini entro i quali le regioni hanno avuto possibilità di gestione, impedendo di creare quella frizione tra regioni ad autonomia differenziata e regioni ordinarie che sembra invece prossima. In materia di Protezione civile, si assegnano ampi poteri di coordinamento alla Regione nei casi di emergenza incorsi a livello territoriale, per rendere più tempestivo ed efficace l’intervento pubblico nell’immediatezza dell’evento.
Per quanto riguarda la tutela e la promozione dei beni culturali, si opera oltre alla consegna delle competenze legislative ed amministrative relative alla valorizzazione del patrimonio museale presente sul territorio regionale, anche delle funzioni ricoperte dalle soprintendenze archeologiche. Sul fronte delle infrastrutture e dei trasporti si richiede in sostanza il trasferimento di beni, impianti e infrastrutture demaniali che insistono sui territori regionali, con annesso trasferimento quindi delle competenze inerenti la gestione delle concessioni, la definizione delle tariffe, piani di investimento, ristrutturazione e adeguamento delle opere esistenti. Le Regioni diverrebbero proprietarie di tutte le infrastrutture di trasporto, autostradali, stradali, ferroviarie, aeroportuali, portuali, sul territorio. Anche per la tutela e sicurezza del lavoro resta il timore di una differente normativa su tutto il territorio nazionale, soprattutto su una tematica oggi così importante. Punto cruciale, semmai, rimane quello della vigilanza che va rafforzata nel suo impianto nazionale. Altro obiettivo è quello di liberarsi dalle strette del bilancio statale per gli investimenti infrastrutturali, al fine di avere una programmazione certa dello sviluppo degli investimenti. Le tre regioni potrebbero attingere autonomamente dal Fondo che lo Stato stanzia per gli investimenti infrastrutturali, mentre il resto del Paese dovrà verificare anno per anno se le manovre finanziarie ed il ciclo economico, consentiranno di confermare le azioni pianificate. Sul coordinamento della finanza a livello regionale, le regioni potranno modificare il concorso degli enti lo cali alla manovra di finanza pubblica e definire un assetto di governance, a livello territoriale, degli equilibri di finanza pubblica. Contestualmente viene rafforzata l’autonomia tributaria.
Queste solo alcune delle tante competenze richiamate nelle intese, cui poi si aggiungono, come si evince da ciascun accordo, una serie di impegni finalizzati a rafforzare il ruolo delle regioni in materia di rapporti internazionali e con l’Unione europea. La grandezza del “fenomeno” la si riscontra non solo dalla portata delle materie attribuibili alle Regioni ma anche da quante Regioni ne stanno facendo richiesta. Il Ministro Stefani ha asserito, infatti, che, dal suo insediamento, hanno intrapreso ufficialmente il percorso anche Liguria, Toscana, Umbria, Marche e Piemonte e, aggiungiamo noi, la Campania. Tirando le somme, se passasse come l’hanno pensata, non solo rischierebbe di essere una vera secessione ma cambierebbe la struttura dello Stato codificata nella Costituzione, con l’estrema conseguenza che molto probabilmente, se questo disegno fosse perseguito da tutte le regioni, lo Stato, svuotato delle sue funzioni, sparirebbe del tutto. Funzioni, importanti ed essenziali, come tutte quelle che riguardano la pubblica amministrazione e lo stato sociale si dividerebbero in mille rivoli ed anche i dipendenti statali passerebbero al livello territoriale, con nocumento dei contratti nazionali e con relative gabbie salariali.
In passato per riforme che garantivano a tutti i cittadini addirittura pari opportunità, come la riforma della scuola unica, si è discusso anche per anni nell’obiettivo di trovare una sintesi condivisa, che solo una volta trovata ha portato all’approvazione. Qui invece la discussione è stata, e continua ad essere, mantenuta segreta.
Altro vulnus è la mancanza di ruolo del Parlamento, che dovrebbe avere il solo compito di “ratificare” o meno un testo, senza poter minimamente intervenire. Bisogna, invece, che il Parlamento pretenda di discutere e, soprattutto, di emendare queste intese. Per la verità sia il Presidente Conte e sia la Ministra competente hanno sottolineato come il Parlamento debba svolgere un ruolo decisivo e che spetta alle Camere decidere come affrontare il tema. Noi ci auguriamo che si riconosca al Parlamento facoltà di discussione e modifica dei testi presentati e gli eventuali emendamenti dovranno esser poi vincolanti per Governo e regioni. Abbiamo già detto che qualsiasi sia l’ipotesi non può essere fatta fra pochi intimi ma deve, rallentando il processo, interessare l’intero Paese. Per questo bisognerà farsi promotori in ogni territorio, cercando di coinvolgere soprattutto i Sindaci, di una discussione ampia e partecipata e solo dopo che sarà affrontata in Parlamento, si potranno ratificare le intese. Se, come sostengono le regioni interessate, le cose, cioè la quotidianità di tutti i cittadini del Paese, non cambieranno in peggio, di cosa si ha paura nell’affrontarla in modo palese e partecipato? È essenziale rilanciare la questione per creare un’opinione pubblica consapevole, cosa che non è avvenuta fino ad oggi.
Come ancora sarebbe importante l’espressione della Consulta sui timori, paventati da molti, di violazione dei principi costituzionali, cosa che invece purtroppo può avvenire solo a posteriori. Noi vogliamo ragionare, con lo spirito laico che ci contraddistingue, quello del dubbio, dubbio che mette in discussione anche le proprie certezze, non sposiamo ideologicamente una posizione definitiva, ribadendo però che, comunque vadano le cose, i principi di solidarietà, coesione e di unità dello Stato vanno sempre fermamente salvaguardati. Voglio concludere con una frase che mi ha colpito. Scrive Eugenio Mazzarella: “È difficile immaginare regionalizzati, oltre che i diritti di cittadinanza, materie come energia, ambiente, infrastrutture, sicurezza, scuola, università, sanità. Per dirne solo alcune. Ma ce n’è una di materie che non può essere sicuramente regionalizzata, se si vuole far salva l’unità del Paese. E questa è la coscienza nazionale5”.
Siamo d’accordo!
1 23 per il Veneto, 20 per la Lombardia e 16 per l’Emilia Romagna
2 Vedi M. Cammelli, Il Regionalismo differenziato, rivistailmulino.it, 20/07/2018
3 www.huffingtonpost.it/stime/sull’autonomia differenziata
4 Gianfranco Viesti, Verso la secessione dei ricchi?, cit. pagg. 37 e 38, Editore Laterza
5 Il Mattino, La Coscienza nazionale non può essere regionalizzata, 22.2.2019