Riscoprire la qualità
FEBBRAIO 2019
Società
Riscoprire la qualità
di   Gian Maria Fara

 

Il tratto distintivo dell’Italia di questo 2019 sembra consistere nella difficoltà di affermare la propria identità, di sapere scegliere i percorsi ai quali affidare il proprio cammino e di stare ai tempi della complessità e della globalizzazione. Quel che appare è un Paese eternamente in conflitto con se stesso e con l’idea stessa di futuro, incapace di mettere a frutto possibilità ed esperienza, di esprimere al meglio le proprie potenzialità e di farsi valere ed apprezzare nel contesto internazionale. Un “Paese del Ni”, che non riesce - su nessun argomento di interesse generale - ad esprimersi in maniera definitiva con un “No” o con un “Si”. Le scelte non sono mai chiare, soggette a cambiamenti o capovolgimenti o, nel migliore dei casi, come nella processione di primavera di Echternach, procedono due passi avanti e uno indietro. Ne sono un esempio i casi delle Olimpiadi a Roma e di quelle invernali rimpallate tra Torino, Milano e Cortina; la questione della Tav e quella della Tap, la costruzione dello stadio a Roma, il problema delle trivelle in Adriatico e il risanamento dell’Ilva o l’atteggiamento nei confronti della vicenda venezuelana. Sul piano istituzionale, mai, nella storia recente, si erano potute osservare una tale “capacità di indecisione”, una così grande confusione di ruoli e di responsabilità, una così netta separazione tra dichiarazioni, annunci e fatti. Una vera e propria patologia che non risparmia nessuno degli attori pubblici e che segna, in forme diverse, maggioranza di Governo, opposizione e le stesse Istituzioni. Basti osservare, per essere equanimi, i comportamenti della principale forza di opposizione che, a distanza di quasi un anno dalla dura sconfitta elettorale, non riesce ad elaborare il lutto, a riorganizzare le proprie fila e persino a darsi un leader. Ed è costretta a sopportare, dopo aver perso l’autorità che aveva prima, anche lo scherno dei vili, quegli stessi “turiferari” che ne incensavano le gesta nei tempi migliori. O quelli delle due forze di Governo che, dopo essersi accanitamente combattute in campagna elettorale, hanno firmato un “contratto” e ondeggiano tra una scelta e il suo 
contrario, tra annunci roboanti e precipitose ritirate. O i litigi e i ricorsi tra alti esponenti della Pubblica amministrazione per un incarico o una presidenza negati o concessi. Nel frattempo, diverse nostre città, fortunatamente non tutte, vengono sommerse dai rifiuti, l’economia non dà segni di ripresa, le aziende chiudono o licenziano, il territorio continua a soffrire di un atavico abbandono e i nostri giovani continuano ad emigrare.
 
UNA NUOVA PATOLOGIA: LA “QUALIPATIA”
 
La separazione tra Sistema e Paese, che abbiamo descritto nel Rapporto Italia 2018, non sembra affatto superata e il Paese resta in attesa di capire che cosa intende fare il Sistema per sanare la frattura. Sul piano più generale, il Paese risente di una atmosfera complessiva di incertezza, combattuto tra le ambizioni che produce l’essere considerato tra i grandi dell’economia mondiale e il timore di mettere a rischio le conquiste raggiunte nel corso degli ultimi decenni. Ondeggianti tra i richiami del sovranismo e la necessità di confrontarsi con una mondializzazione inarrestabile, gli italiani hanno timore di dover rinunciare alle tradizionali certezze in cambio di una sfida alla quale non si sentono del tutto preparati. Un atteggiamento, questo, che fa venire in mente quello del marinaio che, timoroso, preferisce navigare sottocosta, sentendosi confortato dalla vicinanza della terraferma con i suoi punti di riferimento: i profili del territorio, i porti o gli attracchi a breve distanza. Si dimentica però che, in caso di maltempo, i veri marinai preferiscono la navigazione in mare aperto perché offre quelle possibilità di manovra che invece sarebbero a rischio in prossimità della costa. Fuori di metafora, l’Italia avrebbe tutte le capacità e le potenzialità per potersi proiettare nel mondo e nella complessità. Difetta il coraggio necessario, ma soprattutto mancano un progetto e un’idea condivisa di Paese. E, forse, non abbiamo i piloti all’altezza del compito. Le élites, o quel poco che ne resta, sembrano più interessate a salvaguardare ruoli e rendite piuttosto che a dedicarsi all’interesse generale. Manca una carta nautica aggiornata e il navigante è costretto a tracciare la rotta giorno per giorno. La metafora vale tanto per i cittadini e le imprese quanto per la classe dirigente nel complesso: «Domani è un altro giorno, si vedrà», recitava una canzone di Ornella Vanoni degli anni Settanta. La proiezione massima sul fronte economico e finanziario non supera i tre anni e per le società quotate in Borsa i programmi e i risultati si verificano a tre mesi. È caduta la cultura della programmazione. Le grandi questioni che attraversano la vita del Paese sono affrontate con la superficialità e con l’improvvisazione dettate dai tempi della comunicazione. Ogni argomento, anche se di grande rilevanza, viene affidato ad uno spot, uno slogan, un tweet. Il confronto tra idee e posizioni diverse è considerato una perdita di tempo. E anche i luoghi istituzionalmente a ciò deputati sono spesso delegittimati dalla pretesa di trasferire al popolo il potere di decidere. I corpi intermedi, che hanno dato un sostanziale contributo alla crescita culturale ed economica del Paese, sono considerati alla stregua di anticaglie da mercatino dell’usato. Il dibattito pubblico risulta immiserito a causa del declino della cultura dell’ascolto, del rispetto dell’altro da sé e dalla mancanza di una idea di comunità e di un senso stesso dello Stato. Si sta affermando nella società italiana una nuova patologia, la “qualipatia”, intesa nella accezione negativa, ovvero l’avversione ed il rifiuto per tutto ciò che richiama la qualità. Una patologia che archivia l’essere e santifica l’apparire, che esalta il contenitore a discapito del contenuto, che premia l’appartenenza e mortifica la competenza. Si dirà che questo non è un problema di oggi ma un fenomeno che arriva da lontano. E, tuttavia, anche se al fenomeno possono essere attribuite origini più o meno antiche, esso ha subìto negli ultimi anni una progressiva accelerazione e da sintomo del decadimento del sistema si è trasformato in una vera e propria deriva strutturale. La “qualipatia” si esprime in forme diverse, ma ugualmente pericolose: dall’invidia per il successo dell’altro, sino alla aspirazione ad una società di “uguali” dove uno vale l’altro indipendentemente dall’esperienza e dai titoli posseduti. Tutto ciò all’interno di un contesto generale la cui complessità richiederebbe impegno di analisi e di elaborazione, conoscenza dei dossier nazionali e internazionali, senso della realtà e della misura, pazienza e capacità di tessere alleanze in difesa degli interessi del Paese. Si dirà che questi problemi sono la risultante del passaggio dal vecchio al nuovo e, quindi, il prezzo da pagare all’abbandono di antiche e consolidate abitudini. Ed è anche vero che, come diceva John Locke, «le nuove opinioni sono sempre sospette, e di solito, incontrano opposizioni, per nessun altro motivo se non perché non sono ancora comuni». Tuttavia, i portatori di nuove idee e di nuove opinioni devono saper tenere in conto che, volenti o nolenti, anch’essi sono il frutto del passato ove si consideri il fatto che non possiamo essere tutti orfani. Anche se, talvolta, sembra che siano in parecchi ad aspirare ad essere “orfani”. Ma, come diceva Le Goff, se si è orfani del passato, non si capisce il presente e non si progetta il futuro.
 
L’EUROPA CHE C’È E L’EUROPA CHE NON C’È 
 
Ma se Atene piange, Sparta non ride. E se l’Italia è costretta a misurarsi con enormi difficoltà e ritardi (ai quali, peraltro, è storicamente abituata), l’Europa nel suo complesso, ed alcuni tra i suoi principali paesi in particolare, non sembrano essere in così buona salute quanto hanno sempre voluto far apparire. Non di rado, il nostro Paese viene bistrattato - qualche volta a ragione - dai nostri partner europei. Riaffiora il vecchio pregiudizio esaltato dalle teorie di Montesquieu sul fatto che la democrazia fosse più adatta ai popoli riflessivi dei paesi freddi che non a quelli dei paesi caldi del Sud Europa, indisciplinati e con scarso senso dello Stato. 
È stata esercitata nei nostri confronti una sorta di superiorità. Spesso siamo stati trattati come il parente povero al quale concedere qualcosa, dimenticando che l’Italia è tra i paesi fondatori dell’Unione e che contribuisce, in maniera sostanziale, al mantenimento della stessa. Certo, talvolta ci siamo presentati alle cerimonie ufficiali con atteggiamenti e abbigliamento poco consoni e, tuttavia, non sarebbe male ricordare ogni tanto W. Shakespeare quando fa dire a Lear che, “attraverso le vesti stracciate, si mostrano i vizi minori, gli abiti da cerimonia e le pellicce li nascondono tutti”. E, potremmo aggiungere noi, soprattutto quelli più grandi. Che la costruzione europea mostri più di qualche crepa è di fronte agli occhi di tutti. Continua, nei fatti, quella “crisi esistenziale” della quale aveva parlato il Presidente della Commissione J.C. Juncker, lo stesso che poi, dopo aver “spezzato le reni alla Grecia”, ha ammesso candidamente che la politica di austerity con la quale la Commissione Ue ha agito, sposando la linea del Fondo Monetario Internazionale, è stata un grande errore. Così come è evidente che la stessa sopravvivenza dell’Europa sia strettamente legata alla sua capacità di ritornare allo spirito e ai valori indicati dai padri fondatori e di prendere atto dei cambiamenti epocali che sono intervenuti dopo Maastricht. Nel corso degli anni, attraverso il Rapporto Italia e tante altre ricerche, abbiamo segnalato il progressivo abbandono della idea stessa di comunità e del proposito di giungere nel tempo agli Stati Uniti d’Europa. Il sogno sembra essersi interrotto a metà e, in attesa, ci è stata propinata una Europa della burocrazia, delle lobbies, delle banche, della finanza e una moneta senza Stato. Gli egoismi nazionali, mai del tutto sopiti, sono richiamati a nuova vita, la solidarietà è diventata merce di scambio e ognuno si rinserra nel proprio castello sollevando il ponte levatoio e rinforzando le mura. Però il sovranismo non è un fenomeno nuovo. È innato nell’Unione ed è uno degli aspetti più rilevanti della debolezza dei Trattati e del conseguente rafforzamento del neo-sovranismo nelle diverse forme nelle quali si presenta ai giorni nostri. Quando a Maastricht fu deciso che la sovranità di regolare il mercato e quella monetaria fossero delegate a Istituzioni europee, venne anche deciso che la sovranità fiscale sopravvivesse a livello nazionale. Questo è il peggior sovranismo che affligge l’Unione europea e che ha dato campo libero alla concorrenza fiscale tra Stati e consentito la sopravvivenza della vergognosa prassi dei paradisi fiscali. Era chiaro fin da allora che la politica fiscale non poteva restare disgiunta dalla politica monetaria e dalla regolazione della concorrenza, mantenendo in vita profonde diversità tributarie. Un insegnamento che autorevoli protagonisti dell’economia, come Paolo Savona, vanno diffondendo da tempo. Ma conviene soffermarsi su un aspetto del problema che era chiaro fin dall’inizio: il trasferimento della sovranità monetaria avrebbe dovuto anticipare, propiziandolo, il raggiungimento dell’unificazione politica. Il mancato raggiungimento dell’unificazione politica avrebbe richiesto che le sovranità nazionali delegate dovessero tornare agli Stati deleganti. La stessa Costituzione italiana lo impone con l’art. 11. Perciò, riemergono la preminenza del nostro dettato costituzionale e il dovere di chiedere le correzioni necessarie senza che ciò implichi la negazione dell’utilità di un mercato comune con una moneta unica (peraltro, valida solo per 19 paesi su 27, altra incongruenza). D’altronde, la Germania ha sempre confrontato le decisioni prese a livello comunitario con la propria Costituzione; questa verifica, noi non l’abbiamo mai fatta. Non resta che sperare nell’apertura di una franca discussione, o, meglio ancora, di una vera e propria trattativa in materia. Non si può perdere tempo. L’edificio europeo mostra, ogni giorno che passa, la fragilità della sua costruzione. La lunga crisi e le misure che sono state adottate per fronteggiarla hanno messo a dura prova la resistenza dei cittadini europei e anche i paesi, che si erano sinora considerati al riparo, sono costretti a fare i conti con i risultati di scelte profondamente sbagliate.
 
“ELOGIO” DEL SOMMERSO
 
Le politiche economiche concentrate sulla austerità hanno prodotto impoverimento diffuso, concentrazione della ricchezza, indebolimento dei sistemi di Welfare, abbassamento della qualità dei servizi, disoccupazione, aumento delle disuguaglianze, contrazione della crescita, riduzione del potere d’acquisto e un profondo, generalizzato senso di disagio e di incertezza. La logica dell’austerità ha compiuto il “capolavoro” di mettere in discussione le conquiste sociali del passato e di provocare l’imbarbarimento della vita civile. A pagare il prezzo di tali scelte sono stati principalmente i ceti medi, già colpiti dal blocco della mobilità sociale ed esposti ad un processo di progressivo impoverimento. Sulle difficoltà dei ceti medi il nostro Istituto ha, in numerose occasioni, richiamato l’attenzione del sistema politico e dei mezzi di comunicazione denunciando i pericoli per la tenuta stessa del sistema. Queste difficoltà hanno prodotto esiti diversi nei diversi paesi europei, ma quello che sta accadendo negli ultimi mesi in Francia, con la protesta dei “gilet gialli”, è la dimostrazione di quali e quanti guasti abbiano provocato le scelte e le decisioni di politica economica imposte dalla Ue. Attenzione! Quando è la Francia a muoversi, e gli ultimi due secoli ce lo ricordano, raramente si è trattato solo di “ammuina”. Paradossalmente, in Italia la lunga crisi ha avuto esiti diversi a causa della saldatura tra due fenomeni, uno di carattere contingente ed uno di carattere strutturale, si potrebbe anche dire storico. Nel primo caso, il disagio e la protesta hanno trovato sbocchi istituzionali che si sono evoluti dalla presenza in Parlamento sino al Governo del Paese, anche se resta ancora da capire quali possano essere i risultati che il cosiddetto “popolo al Governo” potrà conseguire. Il secondo fenomeno, quello di carattere strutturale, è il “sommerso” che ha svolto, negli anni più duri della crisi, la funzione di un vero e proprio ammortizzatore sociale. Quando, negli anni passati, affermavamo che in Italia convivevano due economie complementari, una ufficiale e l’altra ufficiosa, alle quali ne andava aggiunta una terza, quella propriamente criminale, fummo contestati da Istituzioni e studiosi con i paraocchi. I nostri calcoli, in sintesi, sono questi: un Pil che viaggia intorno ai 1.600 Mld di euro; un sommerso equivalente a circa 1/3 del Pil ovvero circa 530 Mld e un fatturato criminale che supera abbondantemente i 250 Mld di euro. Non si spiegherebbe altrimenti come, di fronte alla profondità della crisi, il Paese avrebbe potuto cavarsela. E come non vi sia stato, soprattutto negli anni più bui, l’assalto al “forno delle grucce” di manzoniana memoria.
 
Se non sembrasse una provocazione, si potrebbe dire che ai francesi, popolo disciplinato, rispettoso delle regole e con forte senso dello Stato, sia mancato il sommerso, ovvero, quella capacità di arrangiarsi e di trasgredire alle leggi che è connaturata alla tradizione e alle sub-culture degli italiani. Potrà anche non piacere, ma è così. Anche la odierna stentorea crescita del Pil o, peggio, la stagnazione annunciata non corrispondono del tutto alla realtà, ma segnalano, a nostro parere, che pezzi sempre più consistenti dell’economia formale, a fronte di un quadro di generale incertezza, stanno progressivamente occultandosi, alimentando il sommerso e dando l’idea, almeno in termini statistici ufficiali, di una crescita minore di quanto auspicato. Un fenomeno, questo, che potrà essere frenato solo attraverso un sostanzioso abbassamento della pressione fiscale, la semplificazione dei processi amministrativi, la modernizzazione del nostro obsoleto apparato burocratico, anche attraverso un veloce ricambio generazionale e quota cento in questo senso potrebbe essere utile. E, finalmente, la digitalizzazione del Paese. Questi passaggi sono indispensabili per cominciare a sanare la frattura che si è creata nel corso degli anni nel rapporto tra Stato e cittadini. Nello stesso tempo lo Stato deve lanciare un piano di investimenti pubblici per potenziare le infrastrutture e per mantenere e creare posti di lavoro. Forse è utile ricordare il richiamo che Keynes fece al Presidente degli Stati Uniti, Roosevelt, nel 1933, durante la “grande crisi”: «Prendetevi cura della disoccupazione e il bilancio pubblico si prenderà cura di se stesso». L’idea che in una situazione asfittica, in cui il “mercato” non crea sviluppo, ma predilige nicchie di rendita, lo Stato debba destinare le scarse risorse di cui dispone, magari in deficit, ai consumi privati, si è dimostrata sempre fallace. Lo stimolo del consumo privato è efficace quando “la ruota gira”, quando le attese dei consumatori sono già in forte crescita. Negli ultimi anni la limitatissima crescita dei consumi privati non ha garantito di innescare la marcia di un nuovo sviluppo. Quello che serve, lo ripeto, è un piano straordinario di investimenti pubblici, finalizzato al riassetto del Paese. Un piano che sia compreso e condiviso da ampie fasce di cittadini e li incoraggi a collaborare anche mettendo in gioco il risparmio privato.
 
UNO STATO SENZA “SENSO”
 
Ma, insieme, occorre che lo Stato ritorni ad essere protagonista e guida del futuro degli italiani. Occorrerebbe riscoprire il senso di comunità e di appartenenza che aveva animato la rinascita del Paese nel Secondo Dopoguerra, recuperando il sano buon senso che abbiamo gradualmente dismesso. Nel corso degli anni, asserviti alla ideologia liberista della supremazia del mercato e confidando nella sua capacità autoregolativa, abbiamo progressivamente demonizzato il ruolo e le funzioni dello Stato, considerandolo come il nemico da abbattere perché ritenuto causa di tutti i mali e ostacolo al progresso. Il paradosso è che, in Italia, a intervenire più duramente sulla riduzione del ruolo dello Stato, sono state proprio le forze di sinistra, quasi che dovessero pagare un pegno al liberismo per ottenere la patente di liberali. Ma liberalismo e liberismo sono due cose non sempre coincidenti, anzi diverse. È un processo, questo, che parte da lontano, dall’inizio degli anni Settanta, quando demmo vita alle Regioni, che avrebbero dovuto essere gli avamposti della modernità e di una nuova qualità di partecipazione dei cittadini alla gestione della Cosa Pubblica. Che cosa siano diventate le nostre Regioni è davanti agli occhi di tutti. Salvo alcune lodevoli eccezioni, esse sono spesso centri incontrollabili di spesa, fabbriche di nuove burocrazie, ricovero per politici di scarsa qualità, moltiplicatori di consigli di amministrazione, rallentatori di percorsi amministrativi e decisionali. Lo Stato si è via via privato di una serie di poteri e di competenze senza che ciò producesse una maggiore efficienza della macchina amministrativa e un miglioramento della qualità della vita dei cittadini. Basti pensare alla coincidenza evidente tra la nascita delle Regioni e l’aumento, nel corso degli anni, del debito pubblico. Forse, la soluzione del deficit di qualità potrebbe essere quella di affidare loro la responsabilità di una vera e propria autonomia, riconoscendo a tutte uno Statuto speciale. Danni altrettanto importanti li ha provocati la teoria del “privato è bello, il pubblico è brutto” che ci ha portato a smantellare la presenza dello Stato sul fronte economico e produttivo. Ci siamo privati degli asset strategici attraverso i quali l’Italia fu trasformata da paese agricolo e arretrato in una potenza economica ed industriale. Ovviamente, non intendiamo sostenere che l’Italia sia immune dalla corruzione o che la corruzione stessa non ne abbia caratterizzato la storia antica e recente. Ciò che vogliamo, invece, fortemente, affermare è che il nostro Paese è anche meno corrotto degli altri, che reagisce alla corruzione più degli altri, che non la tollera e che combatte il malaffare ed oggi lo previene anche meglio degli altri. E, che abbiamo appena varato una legge sulla corruzione, che non sarà perfetta, ma di sicuro sarà efficace. Siamo il Paese in cui Forze dell’ordine e Magistratura inquirente operano, molto più che altrove, nella lotta al malaffare. E questa è un’evidenza che si basa su dati scientifici, politicamente corretti ed intellettualmente onesti. Dopo la proposta e la raccomandazione, passiamo all’appello. Quando si parla dei problemi del globo - dal clima alla prospettica penuria di risorse - si ricorda che dobbiamo amare e preservare la Terra, perché è l’unica che abbiamo. Lo stesso andrebbe detto per il nostro Paese: è l’unico che abbiamo e vorremmo vederlo sempre più efficacemente tutelato e protetto dalle sue fragilità. Dobbiamo, dunque, amarlo e proteggerlo e non considerarlo il palcoscenico di contrasti e di reciproche aggressività con le quali, secondo l’adagio, mors tua vita mea, stiamo sempre più caratterizzando i nostri giorni. L’appello è alla politica, ma anche alle forze intellettuali fin troppo scettiche e disimpegnate. Amare il Paese significa considerarlo non un territorio proprio, ma la casa di tutti. Significa tifare, ma non come una curva da stadio, per i suoi successi, e collaborare per ottenerli, anche nella sacrosanta divisione dei ruoli delle aree culturali e politiche. E quando è il caso, ovvero quando ci si confronta con altri paesi o con l’Unione Europea, invece di dividerci dovremo prendere insegnamento dagli americani che dicono, indipendentemente dal fatto che stiano al governo o all’opposizione: “Torto o ragione, questo è il mio Paese”. Se anche nelle ultime occasioni avessimo fatto tesoro di questo insegnamento, avremmo ottenuto qualche risultato in più. E su questo fronte la nostra opposizione ha perso, a nostro parere, un’occasione d’oro per riqualificare il proprio ruolo e la propria immagine. Infine, sbaglia quasi sempre un Governo che si ritiene “il primo” di una nuova èra. Ciò può essere valido solo per alcune reali svolte: il gabinetto Cavour, insediatosi il 23 marzo 1861, il primo del neonato Regno d’Italia, e il Governo De Gasperi del 13 luglio 1946, il primo dell’Italia Repubblicana. Nessuno, tra i governi passati e quelli attuali, è stato l’ultimo o il primo. I governi passano, il Paese resta. E la politica dovrebbe avere il compito di manutenerlo oltre l’orizzonte della elezione successiva. Non si può ottenere rispetto per sé, se non si mostra rispetto per gli altri. Gli anni del Secondo Dopoguerra, pur burrascosi e assai duri, questa lezione ce l’hanno data. Sarebbe utile ripassarla per bene. Ogni anno, attraverso il Rapporto Italia, misuriamo il grado di fiducia dei cittadini nei confronti delle Istituzioni. Quest’anno il Rapporto segnala una non scontata, consistente ripresa di tale fiducia. A goderne sono tutte le Istituzioni. Rispetto allo scorso anno la fiducia dei cittadini italiani nel Governo è aumentata di 15 punti percentuali. La fiducia nel Presidente della Repubblica è cresciuta di quasi 11 punti percentuali, quella nel Parlamento di 8 punti, quella nella Magistratura di 9 punti e quella nei partiti di quasi 6 punti. Un segnale positivo ed estremamente interessante che non può essere trascurato. A noi sembra un vero e proprio piccolo patrimonio da coltivare che affidiamo alla cura di quanti - e sono numerosi - hanno ancora a cuore le sorti del Paese.
 
 
 
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