Ate griderà allo sterminio e sguinzaglierà i cani della guerra
MARZO 2019
Inserto
Ate griderà allo sterminio e sguinzaglierà i cani della guerra
di   Piero Nenci

 

Il titolo è stato desunto dalle parole di Antonio, nel Giulio Cesare di Shakespeare, che dopo l’uccisione di Cesare alle idi di marzo del 44 a.C., prevedeva gli orrori della guerra civile. Ate, figlia di Zeus, personifica la cecità morale e la discordia. Un titolo che si attaglia a quanto abbiamo cercato di ricordare, a quello che successe ottant’anni fa, agli angosciosi mesi che portarono l’Italia al disastro dell’ultima guerra. Quando la vita delle famiglie, gli studi dei giovani, il lavoro degli operai e dei contadini dovettero attraversare il crogiolo di un conflitto armato tanto distruttivo come mai prima, quando scienza e tecnica furono indirizzate a procurare morte. Cinque anni che chi non li ha vissuti non riesce neppure ad immaginare. Dopo di allora è sempre stata pace in Europa, anche se qualche rischio c’è di nuovo passato sulla testa. In queste pagine ricordiamo l’anno della vigilia, il 1939; rapidamente nominiamo alcuni che c’erano e rileggiamo dalle pagine di qualche testimone: quali furono davvero le esaltazioni, le paure, le speranze degli italiani di allora.

 

Dopo l’uccisione di Cesare, Antonio prevede lo scatenarsi dell’odio di una guerra civile e dice che Ate, la dea della discordia e della cecità morale proclamerà lo sterminio, sguinzaglierà su Roma i cani della guerra. Così all’alba di venerdì primo settembre 1939 – più precisamente alle 4 e 45 – anche l’avanguardia della Wehrmacht germanica alzò una sbarra di confine con la Polonia e lasciò liberi i suoi uomini addestrati allo sterminio. La notte è serena, la luna risplende, appena due notti prima era in fase di luna piena. Due giorni dopo Francia e Gran Bretagna accettavano la sfida di Hitler: la mattanza era aperta. L’Italia per il momento ne resta fuori. In quei giorni nell’Italia del duce è in corso un altro tipo di guerra, molto meno cruenta: nei rapporti sociali è stato abolito il “lei” e imposto il “voi”, l’italianissimo voi dei nostri bisnonni, di quando neppure tra moglie e marito ci si dava del tu. Ma nessuno prende sul serio questa ennesima imposizione, anzi è l’occasione per un gaio scambio di equivoci e di scherzi.

 

Quel lontano 1939

In Italia la vita sembra scorrere come sempre ma nel palazzo romano di piazza Venezia c’è parecchio fermento. Raccontano i cronisti che quel primo settembre il cielo del Bel Paese era annuvolato e sulla Pianura Padana pioveva. Pioveva anche sui cartelloni pubblicitari che invitavano ad una vacanza al Lido di Venezia; nelle vetrine della Standa a Milano erano ancora esposti i nuovi costumi da bagno. La lotteria di Merano prometteva milioni, bastava solo un biglietto da 12 lire. Con trenta lire si poteva comprare una maschera antigas: le ragazze se la provavano per gioco, la indossavano anche al loro cagnolino. Nel suo diario Galeazzo Ciano annotava che la Borsa  andava alle stelle, che i piroscafi italiani erano al tutto esaurito e per chi non poteva imbarcarsi c’erano sempre i treni popolari per andarsi a bagnare le chiappe al mare. Marco Innocenti ha ripescato dai giornali dell’epoca il costo della vita degli italiani: il giornale 30 centesimi, il pane due lire il chilo, lo zucchero 6,50 e dodici uova 6,30. La vendemmia è stata favorevole: l’uva costa una lira al chilo, una camicia 15 lire e un paio di scarpe 150. La Fiat ha da poco presentato la 1100 (costa 23 mila 400 lire) e la benzina è a 5 lire il litro. Un impiegato di prima categoria  porta a casa 1.650 lire al mese, uno di terza 850; la paga operaia va dalle 120 alle 150 lire la settimana. Un professore universitario intasca 2.500 lire al mese, una cuoca 200 e una domestica solo 100. Una famiglia piccolo borghese fatica con 1.500 lire al mese, quelle di livello superiore se la spassano con 4 o 5 mila lire. Ma tutto sta per cambiare; i primi segnali sono la sospensione di varie corse ferroviarie, ai bar compaiono le scritte “niente caffè”, per circolare in auto ora occorre un permesso della questura, gli esercizi pubblici devono chiudere entro le 23; il giovedì e il venerdì non si vende più carne, i prezzi dei generi alimentari cominciano a lievitare. Anche il genero del duce lo annota, scrive: “c’è una gran rarefazione di mangerecci”. Dunque le prospettive per l’imminente inverno non erano favorevoli e chi disponeva di qualche risparmio investiva in generi alimentari. Per risparmiare si va a piedi o tutt’al più in bicicletta. L’autarchia imposta dalle sanzioni al tempo della guerra d’Abissinia deve continuare: si allevano conigli (se ne contano ormai 50 milioni di capi) e si adocchiano i gatti, tanto che una canzone allora in voga interrogava: “Maramao perché sei morto?” Prima della fine di novembre nelle regioni del nord arrivò la prima neve che poi cadde anche a Roma: non succedeva, pare, dal 1846 (tempi calamitosi anche quelli). Dunque altri disagi. Intanto ci si chiede se davvero ci sarà la guerra: un clima di angoscia serpeggia nell’animo della gente ma si spera sempre di restarne fuori e che alla fine prevarrà il buon senso.

 

Un governo lungo più di vent’anni

Quell’anno, il 10 febbraio, era morto d’infarto, Pio XI. Il due marzo gli succedeva Eugenio Pacelli, Pio XII. Che a giugno aveva proclamato protettori d’Italia San Francesco d’Assisi e Santa Caterina da Siena, due “costruttori di pace”, e il 24 agosto, collegato da Castel Gandolfo alla Radio Vaticana, aveva letto un messaggio per implorare la pace. Ma il 7 aprile l’esercito italiano aveva invaso l’Albania, il 22 maggio il duce aveva stretto un’alleanza militare con Hitler (il Patto d’acciaio): in caso di guerra l’Italia sarebbe scesa in campo a fianco della Germania. Gli italiani non potevano star tranquilli. Il 30 agosto erano stati costretti ad una esercitazione di oscuramento notturno antiaereo: alle 21:30 tutti al buio, finestre tappate, luci delle vetture pubbliche ridotte a piccole fessure, agenti dell’antiaerea Unpa che vigilano e denunciano i disobbedienti. Il giorno dopo si replica, bisogna munirsi di piccole lampade tascabili e a noi ragazzi sembra tutto un gioco, invece è la vigilia della guerra. Il 31 ottobre il duce aveva rimescolato la composizione del suo governo che ora era così articolato: alle presidenza sempre lui, Benito Mussolini. Il suo ministero è stato il più longevo d’Italia: 20 anni, 8 mesi e 25 giorni; suo sottosegretario aveva nominato Luigi Russo in sostituzione di Giacomo Medici Del Vascello. Il duce era anche ministro dell’interno, dell’aeronautica, della marina e della guerra. Ministro degli esteri suo genero Galeazzo Ciano, fucilato a Verona dalla polizia della Rsi l’11 gennaio 1944. Ministro dell’Africa Attilio Teruzzi, all’agricoltura Giuseppe Tassinari, alle comunicazioni Giovanni Host-Venturi, alle corporazioni Renato Ricci, alla cultura di massa Dino Alfieri, all’educazione nazionale Giuseppe Bottai, alle finanze Paolo Thaon di Revel, alla giustizia Dino Grandi (che il 25 luglio presentò quella mozione di sfiducia che mise fine al governo fascista), ai lavori pubblici Adelchi Serena, agli scambi e valute Raffaello Riccardi. Tutti erano anche membri del Partito nazionale fascista al quale quel 31 ottobre 1939 era stato cambiato anche il vertice: Achille Starace aveva lasciato il posto ad Ettore Muti che morirà in una imboscata il 24 agosto 1943 mentre veniva arrestato dai carabinieri. Starace finirà invece col duce a piazzale Loreto il 29 aprile 1945. Intanto il 6 settembre l’esercito tedesco era entrato a Cracovia, il 13 aveva distrutto la città di Frampol e il 17 – con grande sorpresa di tutti – anche l’Unione sovietica invadeva la Polonia e se ne annetteva tutta la zona orientale. Il 25 dicembre per gli italiani è l’ultimo natale di pace e il 31 si chiude quell’incerto 1939. Le cronache mondane riferiscono che il genero del duce lo festeggia con gli amici a Cortina dove a mezzanotte si fanno saltare i turaccioli dello champagne e le spalline degli abiti da sera delle signore e si premiano le tette più belle. Anche i poveri brindano e si augurano che non ci sia nessuna la guerra. A Vicenza un ragazzo muore per lo scoppio di un residuato bellico del 15-18: “la prima guerra non ha ancora finito di fare vittime che è già cominciata la seconda”, commenta  Marco Innocenti.

 

Il quadro europeo

A questo punto sarà opportuno inquadrare storicamente quel periodo. La crisi economica degli anni 29-30 fu l’occasione colta dalla Germania per sospendere i pagamenti dei danni di guerra impostigli dal trattato di pace di Versailles per il conflitto che aveva scatenato nel 1914. Quel trattato, nel 1936 subì un ulteriore colpo col fallimento della Conferenza di Londra per la riduzione degli armamenti. La Società delle Nazioni in pratica era stata esautorata. Ne approfittò Mussolini prendendo l’iniziativa di promuovere un patto a quattro – Italia, Francia, Inghilterra e Germania – per discutere sui problemi che potevano minacciare la pace. L’incontro si era tenuto a Roma nel giugno 1933, ma per le proteste degli esclusi l’intesa raggiunta non fu ratificata, così fallì anche quell’ultimo tentativo di tenere unita l’Europa. “L’idealismo democratico-ugualitario della SdN tenne in iscacco il realismo politico del patto a quattro”, commentò uno storico. Qualche mese dopo Hitler abbandonò l’Organizzazione e si ritenne libero di riarmare la Germania contravvenendo il trattato di pace del 1919. Ne uscì anche il Giappone per non avere più vincoli all’occupazione della Manciuria. Messa in tal modo in crisi la stessa Società delle Nazioni furono raggiunti vari accordi a due o a tre; la Polonia, ad esempio, si appoggiò alla Germania per essere protetta contro la Russia bolscevica ma poi venne fagocitata da entrambi; Austria e Ungheria si appoggiarono all’Italia per non cadere sotto l’egemonia tedesca. Intanto Hitler proseguiva col suo programma di colpi a sorpresa per scardinare completamente il trattato di pace che aveva suggellato la prima guerra mondiale: nel 1934 si era definitivamente impadronito del partito nazionalsocialista eliminando tutti i possibili concorrenti (la Notte dei lunghi coltelli) quindi aveva tentato di impadronirsi dell’Austria (i nazi erano riusciti solo ad ucciderne il cancelliere Dollfuss) e in quella occasione Mussolini aveva mobilitato le truppe al confine nord-orientale dell’Italia pronto a difendere l’indipendenza di Vienna. All’inizio del 1935 (come previsto nel trattato di Versailles) la regione della Saar andò al plebiscito e con un voto del 90 per cento scelse di essere tedesca. Subito dopo Hitler ripristinò il servizio militare obbligatorio che, invece, il trattato di pace gli interdiceva. Stracciato il trattato del 1919, il cancelliere tedesco cominciò a mettere in subbuglio anche i confini interni dell’Europa e il vecchio mondo si trovò di nuovo in pericolo. Allora le nazioni che nel 1915 avevano sottoscritto la Triplice intesa (Gran Bretagna, Francia e Italia) nel mese d’aprile si riunirono a Stresa per esaminare la situazione ma non combinarono nulla, anche perché mentre lì si discuteva di pace, Londra trattava con Berlino sugli armamenti navali, i governanti della Gran Bretagna facevano concessioni ad Hitler nella speranza di contenerne gli appetiti; la Francia finì per appoggiarsi alla Russia e l’Italia rimase a guardare. Anche perché si stava avventurando nell’impresa etiopica che il Parlamento francese bocciava e la Gran Bretagna rifiutava anche solo di prendere in considerazione. Così nell’ottobre 1935 Mussolini azzardò la guerra contro il Negus, sperando di concluderla in pochi mesi. Il 5 maggio 1936, subissato dagli applausi, proclamò che avevamo un impero. Le sanzioni economiche contro l’Italia decise dalla SdN non ebbero alcun effetto perché le stesse misure non erano state adottate né contro i molti atti unilaterali di Hitler che disattendevano il trattato di pace di Versailles, né contro il Giappone che invadeva il territorio cinese. Per cui servirono solo a rafforzare il fascismo.

 

L’arbitro dell’Europa

Nel ‘38, quando la guerra era ancora lontana e si continuava a parlare di pace, in Italia fu pubblicato un libro dal titolo Economia armata. Conteneva alcuni discorsi di Mussolini, alcuni scritti di Badoglio (capo dello Stato maggiore generale e presidente del Cnr) e interventi dei capi delle diverse forze armate; tema generale era la necessità di instaurare un rapporto fattivo tra politica e industria, ricerca scientifica e istituzioni militari. I singoli temi affrontati andavano dalle materie prime strategiche alle tecnologie più avanzate, dalle comunicazioni alla logistica; si discuteva di produzione bellica, di intrecci fra interesse pubblico e interessi privati, di collaborazione tra civili e militari. Se vi si aggiunge che già tredici anni prima era stato varato un primo decreto che prevedeva la mobilitazione generale in vista di un possibile conflitto (legge n. 969/25) c’era poco da stare allegri e di credere che mai l’Italia sarebbe entrata in guerra. Dunque già nel ’38, al di là delle parole contraddittorie del grande capo, si poteva già temere che il Paese sarebbe stato trascinato ad un nuovo conflitto. Denis M. Smith nella sua biografia di Mussolini ha scritto che il duce disprezzava i Cechi  come “slavi di razza inferiore” e quando Hitler si annesse l’Austria disse che era “stato  tolto un equivoco dalla carta europea”, aggiungendo che bisognava toglierne altri tre: Cecoslovacchia, Svizzera e  Belgio. Per cui informò i tedeschi di essere pronto ad appoggiarli in questa revisione della geografia europea. A settembre il primo ministro inglese Chamberlain chiese al governo italiano di intervenire per fermare Hitler. Al che il duce si sentì lusingato, avrebbe commentato che gli inglesi avevano “ormai l’utero fuori posto” se dovevano elemosinare il suo aiuto e una volta di più assicurò Hitler di volerlo affiancare. Alla Conferenza di Monaco Mussolini ci andò sicuro che Francia e Gran Bretagna fossero ormai sull’orlo di una crisi di nervi e presentò una risoluzione che in sostanza limitava le pretese dei tedeschi sulla Cecoslovacchia alla sola riunificazione dei numerosi cittadini germanici ivi residenti. Questa richiesta – ha precisato lo storico inglese – era stata scritta dai tedeschi stessi e passata al duce perché la presentasse alla Conferenza. Inglesi e francesi credettero di salvare la pace in Europa concedendo quanto Hitler chiedeva attraverso Mussolini che ne ricavò la reputazione di salvatore dell’Europa. Tornato in Italia il duce fu accolto come un eroe; sembra che la gente lo inneggiasse alle stazioni da cui passava il treno. Il re lo attese alla stazione di Firenze per salutare questo suo primo ministro che aveva dato all’Italia un ruolo così importante nella politica europea. A Mussolini sembra però che queste lodi piacessero poco perché erano state offerte al “pacificatore” invece che al “vincitore”. Comunque non aveva ancora deciso se prendere parte alla guerra, si rendeva conto che l’Italia non era preparata e che il riarmo costava troppo per le disponibilità del Paese; ma ora che era considerato l’arbitro dell’Europa sperava di poter con poco sforzo trarre guadagno dalle colonie che i Paesi che sarebbero stati sconfitti dalla Germania avrebbero dovuto cedere. In ottobre radunò il Gran Consiglio e lì ripeté che tutto in Italia doveva essere militarizzato, che lui era determinato a cambiare la geografia dell’Europa ed espresse il suo disprezzo per i francesi, irritato perché i corrispondenti dei giornali d’oltralpe raccontavano che la maggior parte degli italiani era contrario alla guerra. Invece i giornali nostrani scrivevano – come veniva dettato loro – che i cittadini della Corsica volevano tornare all’Italia. Il 30 novembre fu convocata la Camera e vi fu invitato anche l’ambasciatore francese perché il ministro degli esteri Ciano avrebbe tenuto un importante discorso. Fu un grande spettacolo: i deputati si alzarono in piedi 11 volte ad applaudire e alla fine reclamarono a gran voce l’annessione di Nizza, della Corsica e di Tunisi all’Italia. Intanto nelle strade intorno al Parlamento studenti e impiegati pubblici (che avevano avuto giornata libera) manifestavano gridando le medesime richieste. Ma il duce si imbestialì di nuovo perché la stampa francese non aveva preso sul serio tutta quella messinscena. Il chiasso su queste richieste durò a lungo e la bellicosità italiana fu sostenuta da una nuova legge secondo cui in caso di guerra tutti i deputati sarebbe stati arruolati d’ufficio. L’approvazione di questa legge fu salutata in Parlamento col canto di Giovinezza. Nel gennaio 1939 il primo ministro Chamberlain (su richiesta del duce) tornò a Roma: Mussolini sperava di indurlo a persuadere Parigi perché cedesse a qualcuna delle sue rivendicazioni, il primo ministro inglese sperava invece in un ultimo tentativo per staccare l’Italia dalla Germania. I giornali francesi risposero a questa iniziativa raccontando episodi (veri e no) della vita privata del duce e insinuarono che i suoi disordini personali stavano influendo sulla sua intelligenza.

 

L’avventura d’Albania

L’arbitro d’Europa era dunque contrariato; a rendergli più difficile la situazione ci si mise anche il fuhrer che dopo essersi preso i Sudeti cominciò ad annettersi l’intera Cecoslovacchia. Era dunque un alleato “sleale ed infido”, come lo definiva Ciano. Dopo un primo momento di smarrimento il duce si presentò al Gran Consiglio e disse che non c’erano alternative all’alleanza con la Germania e che intendeva scendere in campo nel giro di due anni, prima che la Gran Bretagna riarmasse. Aggiunse che la nuova parola d’ordine era: più cannoni, più aerei, più navi, a qualunque prezzo anche a costo di mandare all’aria la vita degli italiani. Intanto era finalmente finita la guerra di Spagna dove l’Italia aveva profuso uomini e mezzi e lui s’aspettava che Franco si schierasse dalla sua parte ma il caudillo rispose che non era possibile: la Spagna aveva bisogno di un paio d’anni di tranquillità per potersi riprendere. Quando Hitler arrivò a Praga, il duce capì che era il momento per lui di occupare l’Albania (che era già di fatto una provincia italiana) dove – si diceva – avrebbero potuto trovar lavoro alcuni milioni di coloni italiani. Sembra che il terreno fosse stato preparato con una vasta rete di corruttele e col possibile aiuto degli slavi ai quali era stato promesso uno sbocco nell’Egeo attraverso la greca Salonicco. E quando la SdN protestò contro questa invasione di un Paese membro dell’Organizzazione la giustificazione di Roma fu “per restaurare l’ordine e la giustizia”. Anche questa occupazione fu tutt’altro che un successo, tuttavia la propaganda del regime affermò che aveva accresciuto il prestigio dell’Italia nel mondo. Sembra che Hitler fosse preoccupato che il duce facesse il passo più lungo delle sue possibilità e mettesse in pericolo i progetti che lui aveva in mente, così mentre la Wehrmacht si preparava ad invadere la Polonia i consigliori tedeschi fecero capire a Roma che era meglio non intralciasse le operazioni del Reich per un paio d’anni. In soccorso della piccola Albania si schierarono Grecia e Turchia fornendole garanzie militari. Il che avrebbe deciso il duce ad accettare l’offerta tedesca di un’alleanza vera e propria con la Germania. Avvenne nel maggio 1939 e fu chiamato “Patto d’acciaio” e quando alcuni giornali stranieri riferirono che molti italiani non erano affatto contenti di questo legame, il duce si affrettò a far scrivere sui giornali italiani che si trattava di una menzogna. In realtà fu un patto ingannevole perché Hitler tenne nascosto al duce che entro pochi mesi avrebbe cominciato l’invasione della Polonia. Poi quando quell’invasione ebbe inizio Mussolini fu tacitato col permesso all’Italia di attaccare i Balcani per arrivare fino ai pozzi petroliferi romeni. Fu allora un susseguirsi di ipotesi bellicose, tra cui: attizzare l’antisemitismo contro la Francia e appoggiare i movimenti autonomisti in Europa e nelle colonie Una gran confusione. Il duce rifiutò un abboccamento personale chiestogli da Roosevelt e all’inizio di giugno fu Hitler a convocarlo a Berlino. Mussolini non gli rispose, era tremendamente incerto sul cosa fare, smise addirittura di telefonare al suo giornale – Il Popolo d’Italia – col quale prima aveva contatti quasi quotidiani. Poi invitò Hitler a convocare una conferenza internazionale (sperava in un nuovo successo personale come ago della bilancia in Europa?) pur dichiarandosi prontissimo ad entrare in guerra. Quando si rese conto che l’attacco alla Polonia era imminente e che ciò avrebbe provocato l’intervento di Gran Bretagna e Francia spedì il ministro Ciano a Berlino: il suo messaggio era che cominciare una guerra in quel momento sarebbe stata una follia, era preferibile rinviare lo scontro ad alcuni anni più tardi. Il fuhrer lo assicurò che Parigi e Londra non si sarebbero immischiate e che quello era il momento propizio per liquidare gli “Stati pseudo neutrali” uno dopo l’altro. Intanto l’Italia avrebbe potuto far bottino di Grecia e Jugoslavia. Ciano si fece convincere, né protestò che la Germania, nonostante il patto di maggio, procedesse senza far conoscere all’alleato i suoi progetti. Qualche gerarca avrebbe fatto capire al duce che la Germania stava facendo dell’Italia il suo complice in una avventura assai pericolosa ma i diffidenti furono tacitati o allontanati: se la Germania vinceva il duce non voleva mancare alla spartizione del bottino anche se era conscio che quando l’esercito italiano fosse stato schierato si sarebbero scoperte subito tutte le sue fragilità. Così il 21 agosto di quel terribile 1939 Mussolini si decise a comunicare al fuhrer di voler ritirare l’appoggio militare al cento per cento. Subito dopo venne a sapere della firma di un accordo tra Berlino e Mosca (altra violazione del Patto d’acciaio) e questo fu un nuovo colpo per il dittatore italiano che da vent’anni combatteva i rossi e contro i comunisti spagnoli aveva mandato morire centinaia di italiani e aveva sperperato una grande quantità di risorse. Il fuhrer gli rispose che assieme a Mosca avrebbe smembrato la Polonia e quindi avrebbe dato un nuovo assetto all’Europa: l’appoggio dell’Italia, anche se meno poderoso di quello sovietico, gli permetteva di arrischiare una nuova guerra mondiale. Sembra che il duce ne restasse molto allarmato e di nuovo in preda dell’indecisione, soprattutto perché anche dall’entourage del fuhrer gli arrivarono alcuni inviti a non assecondare la volontà di potenza del dittatore tedesco. Il 26 agosto di nuovo Hitler chiese a Roma di decidersi; il duce fece sapere che gli avrebbe risposto di sì ad una condizione: che dalla Germania fossero mandati in Italia diciassette mila (!) treni pieni di materiali per il riarmo dell’esercito italiano. Una richiesta talmente assurda che i tedeschi poterono accusare l’alleato di vigliaccheria, dopo le tante vanterie di battersi a fianco alla Germania. Hitler pregò il duce di non far conoscere la sua intenzione di neutralità per tenere gli inglesi ancora sulla corda. Invece Mussolini fece l’opposto e comunicò a Londra la sua – per il momento – non belligeranza e ai giornali italiani proibì di usare il termine “neutrale”; dovevano scrivere “non belligerante”. Quando gli italiani lessero di tale decisione non poterono che esserne contenti e anche se una manifestazione per la pace in piazza Venezia venne proibita si cominciò a pensare che ora Hitler, senza l’appoggio dell’Italia, avrebbe desistito dall’incendiare l’Europa. Invece il primo settembre dette fuoco alla miccia.

 

Come lo raccontò il Corriere della Sera

In data 6 febbraio il giornale milanese pubblicò le direttive del duce per la tutela dei lavoratori, direttive indirizzate all’on. Bruno Biagi il quale, come responsabile degli interessi dei lavoratori nell’organismo delle Corporazioni, avrebbe dovuto tradurle in pratica: 1) aumento del sussidio di disoccupazione, lasciando inalterata la durata del medesimo; 2) diminuzione da 65 a 60 anni del limite massimo generale per le pensioni operaie e a 55 per determinate categorie; esaminare come tali pensioni potevano essere aumentate; 3) aumento degli assegni familiari la cui gestione deve far capo ad una Cassa unica per gli assegni familiari ai lavoratori italiani; 4) aumento dei sussidi di maternità in rapporto al numero dei figli. Tutto ciò deve farsi, possibilmente senza alterare le quote attuali dei contributi operai. A tutelare gli interessi dei datori di lavoro era preposto Alberto Asquini. Il 3 marzo il giornale dedicò tutta la prima pagina all’elezione di Pio XII. Il telegramma del duce diceva: “Il popolo italiano partecipa al giubilo del mondo cattolico per la fausta elezione di Vostra Santità a Sommo Pontefice. Prego la Santità vostra di accogliere il riverente omaggio del Governo Fascista ed il mio personale”. Quello di Vittorio Emanuele III: “Nella solennità di questo giorno, la Regina ed io siamo molto lieti di far giungere a Vostra Santità le nostre felicitazioni più vive ed ogni migliore augurio di perenne prosperità per la Santità Vostra”. Il 15 marzo si leggono invece questi titoli: “La liquidazione di un equivoco ventennale. L’occupazione del territorio céco ordinata da Hitler. Il Fuhrer annuncia un giusto regolamento che terrà conto del senso di una storia millenaria e dei bisogni pratici dei popoli tedesco e céco. L’Esercito e l’Arma aerea germanica entrano in Boemia e Moravia per proteggere la proprietà e la vita di tutti gli abitanti”. Nella pagina fu scritto anche della “solenne proclamazione dell’indipendenza slovacca” e dei “vani pianti delle democrazie responsabili” e che “Chamberlain esclude ogni eventualità di intervento”. Il 13 aprile un titolo trionfante: “Vittorio Emanuele acclamato Re d’Albania dall’Assemblea costituente a Tirana”. Si trova scritto che il plebiscito degli albanesi per passare sotto il dominio italiano è stato “ardente” e che il governo italiano, smentendo “false voci”, ha assicurato ad Atene: “L’Italia rispetterà nella maniera più assoluta l’integrità della Grecia. Il ministro greco Metaxas presente a Roma ha quindi fatto una “calda e riconoscente dichiarazione” al governo del duce mentre il ministro Ciano che si trovava a Tirana ha assicurato che “la consegna mussoliniana” era quella di “andare verso il popolo”. Il 22 maggio altro titolone per un nuovo avvenimento: “Ciano e Ribbentrop alla presenza di Hitler firmano il patto italo-tedesco. La stretta unione voluta dal Duce e dal Fuhrer esprime la volontà di due popoli e costituisce la più decisa risposta alle manovre dei guerrafondai democratici”. Oggi queste parole risuonano come una campana fessa. Altri annunci in quella prima pagina: che Berlino ha tributato “grandiose manifestazioni al fedele interprete del Duce”, che il fuhrer l’ha decorato di “un’altissima onorificenza”, che ora i due popoli potranno “marciare insieme” e che l’Eiar avrebbe trasmesso la radiocronaca (registrata) della firma del Patto. La prima pagina del Corriere del 24 agosto arriva con la novità: “La firma del patto tedesco-sovietico”. Nell’articolo di fondo si legge che tutta la stampa è stata sorpresa da questo “fatto nuovo” e ne è rimasta “sbalordita”, che “questo colpo di scena ha radicalmente cambiato la situazione”. Questo “fulmine a ciel sereno” ha colpito le “grandi democrazie” a causa della loro “radicale incapacità ad apprezzare realisticamente i rapporti internazionali: il patto di non aggressione fra Germania e i Sovieti rientra nella logica della storia; in quella logica che i governi di Londra e di Parigi hanno da molto tempo perduto di vista”. Perché non capire che il problema di Danzica è uno dei tanti problemi di giustizia creato dal vecchio trattato di pace? È tutto un sistema nuovo che si deve creare, uno spirito nuovo deve presiedere ai rapporti internazionali. “Gli Stati conservatori e plutocratici non l’hanno ancora compreso; per impedire l’avvento della nuova Europa essi hanno sperato prima nella complicità dell’Italia, dopo averla ingannata o derisa o minacciata per un ventennio; poi nella complicità della Russia sovietica alla quale non avevano risparmiato insinuazioni, offese, angherie. Le conseguenze sono visibili. E sono soltanto le prime”. Infine venerdì primo settembre l’annuncio: “Scocca l’ora decisiva. Le proposte di Hitler per Danzica e il Corridoio, leali, ragionevoli e eseguibilissime lasciate stoltamente cadere da Varsavia e da Londra. Inghilterra e compagni inchiodati alle loro tremende responsabilità”. In quella pagina del Corriere si legge che i polacchi rispondono all’invasione tedesca “con la più aspra intransigenza”. C’è anche la notizia che l’esercito italiano sarà diviso in due gruppi di armate, affidate ai comandi del Principe di Piemonte e del maresciallo Graziani.

 

Che c’entrava Danzica?

Fondata fin dall’anno Mille sul Mar Baltico, questa città era abitata da tedeschi, polacchi e casciubi; in seguito vi si insediarono anche parecchi olandesi della Lega Anseatica perché era diventata un attivo centro commerciale; nei suoi pressi sfociava la Vistola, importante via fluviale polacca per il trasposto del frumento. Se la contesero i re polacchi e i Cavalieri Teutonici. Col trattato di Versailles del 1919 Danzica fu tolta ai tedeschi e divenne “città libera”, governata da un commissario nominato dalla SdN. Per soddisfare le esigenze di Varsavia che pretendeva uno sbocco al mare fu concesso alla Polonia un corridoio che arrivava fino a Danzica ma tagliava in due il territorio tedesco della Prussia. Col tempo il governatorato della città era passato ai polacchi i quali avevano anche sviluppato il vicino porto di Gdynia facendone un caposaldo militare. Hitler che voleva riunire in un unico Stato quanti erano di cultura tedesca presentò la richiesta di creare un corridoio che potesse attraversare liberamente il corridoio polacco. Varsavia si oppose, il duce tedesco si accordò con quello di Mosca e quel primo giorno di settembre fece muovere il suo esercito motorizzato per chiudere definitivamente il corridoio polacco, liberare Danzica e occupare metà Polonia. Per non apparire come un invasore, Hitler si era fatto precedere da un documento in 16 punti che il Corriere della Sera pubblicò in prima pagina quel primo settembre 1939: gli italiani dovevano comprendere che il fuhrer aveva ragione. 1- La città libera di Danzica era abitata da tedeschi che parlavano tedesco: doveva quindi tornare al grande Reich. 2 – Gli abitanti del corridoio avrebbero deciso liberamente se stare con la Germania o la Polonia. 3 – Perché le elezioni fossero libere (come era stato fatto per la Saar) militari e autorità polacche dovevano abbandonare quel territorio. 4 – Sarebbe rimasto ai polacchi il porto di Gdynia, per il quale si sarebbe potuto fare un corridoio d’accesso per i polacchi. 8 – I tedeschi avrebbero avuto il diritto di attraversare tale corridoio con una autostrada ed una linea ferroviaria a quattro binari senza alcun controllo di sorta. 9 – Nel caso il territorio dell’attuale corridoio tornasse al Reich, i tedeschi sarebbero propensi anche ad uno scambio di popolazioni. 11 – Se i polacchi avessero voluto continuare ad utilizzare il porto di Danzica avrebbero potuto farlo ma i tedeschi avrebbero avuto il diritto di poter utilizzare quello di Gdynia e tutto il territorio avrebbe dovuto essere demilitarizzato. Varsavia non prese in considerazione le richieste di Hitler: rispose d’essere disposta solo a negoziare sul governatorato della città di Danzica e intanto mobilitò il suo esercito. Hitler fece sapere pubblicamente d’esserne rimasto amareggiato: i polacchi, “sotto la pressione di una mendace campagna internazionale, come nel 1938 aveva fatto la Cecoslovacchia, preferiva chiamare alle armi le proprie truppe, nonostante la Germania non abbia compiuto nei suoi confronti nessun atto di ostilità”. Insomma se Hitler voleva partire, lancia in resta, per imporre all’Europa la Grande Germania che nella sconfitta del 1918 era stata umiliata, ora aveva a disposizione un buon casus belli.

 

Un anno dagli equilibri sempre più instabili

Leggiamo anche un altro testimone di quegli anni, Ruggero Zangrandi. Ha scritto che con l’inverno del 1938 la situazione cominciò a precipitare: “Non trascorreva settimana senza che capitasse qualcosa a mettere a repentaglio il già instabile equilibrio politico. E i nervi di milioni di uomini. Prima ancora di scoppiare, la guerra correva sulla bocca, gravava sul cuore di ognuno”. A Monaco non si era salvata la pace sia pure a spese della Cecoslovacchia ma solo rinviato il conflitto. La gente diffidava ormai delle notizie ufficiali, si affidava alle voci e alla indiscrezioni. Quando Mussolini era tornata da Monaco era stato accolto, a Milano come a Roma, dal grido rituale “duce, duce” cui si erano mescolati anche “pace, pace”. E lo stesso era successo in molte sale cinematografiche, in varie città, quando si proiettavano i Giornali Luce. Chi doveva vigilare aveva riferito e il capo della polizia aveva presentato a Mussolini un rapporto “molto serio” sullo stato d’animo dell’opinione pubblica italiana e lui aveva provveduto rafforzando l’Ovra. A Milano era stato bloccato un gruppo di intellettuali antifascisti, tra cui Eugenio Colorni; così anche a Napoli dove era stato arrestato e sottoposto a tortura il prof. Renato Caccioppoli (nipote di Bakunin). Si era risaputo che l’accademico d’Italia Enrico Fermi dopo aver ritirato il premio Nobel aveva dichiarato di non voler tornare il Italia. Arturo Toscanini era caduto in disgrazia e gli era stato ritirato il passaporto. I cattolici che si erano immischiati coi fascisti per difendere i cattolici durante la guerra di Spagna, ora ne prendevano le distanze. Si vociferava addirittura che Ciano potesse succedere a Mussolini il quale invece cercava di sfruttare al massimo il successo acquisito a Monaco per avanzare consistenti rivendicazioni. In questo clima di incertezza chi ne soffriva di più – racconta sempre Zangrandi – erano i giovani, sia per la delusione che pativano, sia per le prospettive che si facevano sempre più drammatiche. Il culmine si ebbe l’anno dopo, il 10 giugno 1940, quando fu convocato un raduno oceanico per ascoltare l’annuncio della guerra; “era un silenzioso fluire di decine di migliaia di romani, assorti e cupi, perfino fisicamente separati dalle squadrette di fascisti che fendevano la calca cantando e guardandosi intorno con occhi feroci. Non era più la folla accorsa alla proclamazione dell’impero”.

 

Il giorno dei cinquant’anni

Lo storico francese Jean Marabini ha raccontato il clima di Berlino nell’aprile 1939: il 20 era il compleanno di Adolf Hitler, tutta la nazione si era alzata in piedi e tendeva il braccio nel saluto per celebrare il suo fuhrer. La capitale fu svegliata all’alba dal suono di tutte le campane della città, il cielo era sereno e fresco. Il ricevimento si sarebbe svolto nella nuova Cancelleria costruita dall’architetto del regime Albert Speer. Androni, scaloni, saloni sono costellati dalle guardie del corpo del fuhrer: giovani alti, belli, biondi, in una divisa impeccabile, immoti e attenti, sono gli agenti della Leibstandarte Ss Adolf Hitler. Sono loro ad aprire il portone di acacia alto sei metri che introduce nel gabinetto del capo lungo 27 metri, largo 15 e alto 10, il soffitto cassettonato in palissandro. La sala d’attesa misura 46 metri. Entra il corpo diplomatico per gli auguri, sono ricevuti da una triplice fila di guardie, il discorso spetta al nunzio apostolico monsignor Orsenigo. Verso le 9:30 cessa finalmente lo scampanio che ha assordato i cittadini e mezz’ora dopo le trombe annunciano l’inizio della sfilata che durerà fino alle tre del pomeriggio. Scrive Marabini che la folla è grigia e malvestita, i berlinesi non credono più alla pace dopo l’occupazione della Cecoslovacchia e dopo gli accordi di Monaco che “hanno disarmato l’Occidente e paralizzato la resistenza all’interno”. Al ministero degli esteri è stato chiamato un ex agente venditore di champagne “che non ha mai letto il testo del trattato di Versailles” – come scrisse Ciano – quel von Ribbentrop che ora occupa la residenza che fu del presidente del consiglio dei ministri di Prussia. Il 22 agosto, con due aerei, Ribbentrop e mezzo ministero decollano per incontrare il ministro degli esteri di Mosca Molotov. Il capitano pilota che aveva portato Hitler a Monaco per “la notte dei lunghi coltelli”ora porta Ribbentrop per “il giorno della falce e martello”. Questa missione l’ha voluta Hitler ma il fuhrer è perplesso; ad un collaboratore che gli chiede se ha bisogno di qualcosa risponde: “Ho paura di dover presto sentire un fragoroso scoppio di risa tartare”. “Sono loro a dover  temere le vostre, mein fuhrer”, gli risponde quello. Tratta coi russi perché l’incaricato d’affari sovietico a Berlino ha fatto capire che se la Germania si fosse decisa ad allearsi con l’Urss, Mosca avrebbe rinunciato a firmare un’intesa militare con Francia e Gran Bretagna. Questa semplice frase nasconde forse un complesso doppiogioco con molti attori più o meno consapevoli; comunque, commenta lo storico, il patto sovieto-tedesco è una partita a poker che Hitler perderà e consente invece a Stalin di prendere fiato, indietreggiare ma poi vincere la guerra con gli alleati e con gli americani. La sera prima dell’attacco alla Polonia Ribbentrop passa ad Hitler il testo dell’accordo con Mosca: “L’Urss e la Germania si impegnano a non affrontarsi, a non allearsi ad una potenza che attacchi uno dei due Paesi”. Ora il fuhrer è più tranquillo ma nonostante la questione di Danzica vuole assolutamente che la Germania non appaia come aggressore. Il primo settembre un centinaio di militari tedeschi indossano divise dell’esercito polacco e inscenano un attacco all’esercito del Reich; i tedeschi non replicano ma sono presenti fotografi e cineoperatori della rivista Signal per testimoniare al mondo che la colpa è tutta di Varsavia: non solo non capiscono il problema del corridoio di Danzica e non vogliono discuterne ma ora addirittura assaltano l’esercito tedesco dentro il suo confine. Poi, mentre è ancora notte, il generale Halder ordina l’attacco: partono i panzer e dal cielo picchiano gli Stukas e in poche ore fanno a pezzi i reggimenti dei lancieri polacchi, armati di sciabola, che a cavallo galoppano contro i carri armati.

 

E loro dove erano?

Già, quanti anni avevano, dove si trovavano e cosa facevano in quel fatidico 1939 tanti personaggi che con la caduta del regime fascista (la sera di domenica 25 luglio 1943) cominciarono a lavorare per la ricostruzione della democrazia? Da che parte stavano? Erano propensi alla guerra? Ecco una rapida scorsa, tutt’altro che completa, a cominciare dagli uomini che nel 1950 fondarono la Uil: Giuseppe Bacci, nel 1939 aveva 20 anni, lavorava alla Montecatini nelle miniere della Maremma. Invece di pensare alla guerra pensava ai lavoratori; subito dopo il 25 luglio partecipa alla riorganizzazione del Psiup.Renato Bulleri, aveva 22 anni; studente all’università di Pisa; per non indossare la camicia nera (come era d’obbligo per gli universitari), frequenta un corso per sottufficiali. Si laurea con una tesi sul diritto di libertà (!). Arturo Chiari, 48 anni; da giovane era entrato nel movimento sindacale socialista, aveva organizzato i lavoratori, era diventato segretario della Camera sindacale di Bologna assaltata dai fascisti; è stato perseguitato, ha subito angherie e vissuto gli anni del regime in grande difficoltà; nessun desiderio da parte sua di approvare la guerra. Enzo Dalla Chiesa, 31 anni, si laurea con una tesi sui contratti collettivi di lavoro; diventa docente a Parma, dirige due periodici costretti a chiudere per divergenze politiche. Franco Novaretti, 23 anni nel 1939; subito dopo la caduta del regime inizia la lotta antifascista, diventa rappresentante del Psiup nel Cln. Amedeo Sommovigo, 48 anni, segue il padre nelle attività cooperativistiche, organizza le Leghe, collabora con La Voce Repubblicana, insiste perché il partito collabori col sindacato, aderisce all’Unione italiana del lavoro ma tutta questa attività viene messa a tacere dal fascismo e lui è costretto a ritirarsi e per vivere fa l’agricoltore. Italo Viglianesi era già grande nel 1939: nel ’37-38 è alla scuola allievi ufficiali di Spoleto, presta servizio a Cividale del Friuli e, congedato, trova lavoro alla Montecatini; è giovane, ha voglia di divertirsi ma non è estraneo alla vita che lo circonda e presto si rende conto dello stile dei fascisti e simpatizza con chi si oppone. Il clima diventa sempre più difficile: alla vigilia della guerra – scrisse nel suo diario – l’atmosfera di Roma era elettrica; ci si attendeva, per tanti sintomi, che Mussolini stesse per prendere una grave decisione. Anche lui il giorno della dichiarazione di guerra fu inquadrato come tutti gli impiegati e condotto ‘spontaneamente’ a piazza Venezia e pochi mesi dopo chiamato ad indossare la divisa e a difendere la patria sul confine francese. Giovanni Gatti era uno studente nel 1939; l’anno dopo raggiunse la maturità scientifica e l’anno dopo ancora fu chiamato alle armi. Nessuno di costoro approvò o applaudì il duce che nel 1939 stava preparando il disastro italiano. Neppure lo fecero il prof. Cesare Godano, partigiano nella brigata di Giustizia e libertà o Pietro Laforgia Ugo Luciani che allora avevano 11 anni. Giuseppe Filippini era invece un sessantenne, socialista e sindacalista da sempre ma messo da parte dal regime e costretto a fare solo la sua professione di avvocato fino al 1943 quando poté riallacciare i contatti coi vecchi compagni. Umberto Pagani (47 anni) era confinato a Lipari, Ernesto Pellegrino ventiquattrenne subito dopo l’8 settembre aderì al Pri ancora clandestino. Secondo Ramella che si ostinava a comportarsi da socialista era sotto stretta osservanza della polizia fascista; Lino Ravecca, allora diciannovenne, era stato nel ’43 deportato in Germania. Ruggero Ravenna nel 1939 aveva appena 14 anni ma era già al lavoro e Aride Rossi solo 17 anni. Mario Razzini che alla vigilia della guerra ha quasi cinquant’anni è tanto favorevole alla decisione del duce che trascorre quegli anni in carcere poi al confino e quindi in prigione. Maurilio Salomone è un imberbe sedicenne, Franco Simoncini nel ’39 discusse la tesi di giurisprudenza a Firenze e fu mandato a fare la guerra di Russia; tornato vivo si mise in contrasto coi signori di Salò che lo dichiararono fuori legge e le Ss gli dettero la caccia. Ezio Vigorelli, fondatore di Italia libera, era sottoposto a vigilanza speciale e per due volte fu ospite del San Vittore. Non voleva quella guerra fascista. Raffaele Vanni quell’anno aveva solo 17 anni e idee molo lontane da quelle dei fascisti, tanto che già nel ’44 entra in Gioventù repubblicana. Bruno Buozzi è in esilio in Francia, reduce dalla guerra di Spagna. La polizia lo tiene d’occhio; in una relazione su di lui si legge che ha studiato gli elementi italiani presenti in quegli anni a Barcellona concludendo che tra quei volontari la sinistra potrebbe operare un reclutamento assai più ponderoso di quelli di Parigi “tale in ogni modo da rappresentare un nuovo centro importantissimo di agitazione”. Anche Giuseppe Di Vittorio, nel 1939 era esule in Francia dove dirigeva La Voce degli Italiani sulle cui pagine condannò da subito le leggi razziali del duce del ‘38 e i preparativi di guerra del ‘39; nel ’41 fu arrestato dai tedeschi su richiesta dei fascisti.

 

E i politici?

Badoglio approvò la guerra che nel 1939 si stava profilando? Quattro anni prima aveva comandato la guerra di Abissinia, aveva obbedito a tutti gli ordini del duce, anche a quello di usare i gas, era stato nominato viceré dell’Aoi ma aveva preferito tornare in Italia a fare il Capo di Stato maggiore; il re l’aveva nominato duca di Addis Abeba e Mussolini gli aveva consegnato la tessera del Pnf con data retrodatata al 5 maggio 1936 (occupazione di Addis Abeba). Nel ’37 era succeduto a Marconi alla presidenza del Cnr e nel 1939 si era ritirato al suo paese di nascita, Grazzano Monferrato. Enrico De Nicola (il primo presidente del dopo guerra) era stato creato senatore dal re ma lui non volle immischiarsi nella politica del duce, non si presentò mai in aula, solo qualche volta a qualche commissione. Fece il podestà ad Afragola e il suo paese gli dedicò anche una strada e lui partecipò alla cerimonia; diresse uno studio legale dove lavorarono anche Leone e De Martino. De Gasperi in quel lontano 1939 aveva 58 anni; era stato deputato del Partito Popolare, aveva partecipato all’Aventino, era stato condannato a 4 anni di carcere. Dopo sei mesi Pio XI era riuscito ad ottenere la sua liberazione e lo aveva accolto alla Biblioteca Vaticana; dunque non inneggiò al vento di guerra, anzi dal Vaticano si dette da fare per riorganizzare il Ppi e la resistenza. Ferruccio Parri, quarantanovenne, nel 1926 era stato arrestato per aver aiutato a fuggire Filippo Turati; fino al ’33 visse al confino. Manlio Brosio che di anni ne aveva 42, segretario di Gobetti e dichiarato antifascista era molto lontano da piazza Venezia. Per Pietro Nenni (che nel ’39 aveva 48 anni) non ci sono misteri: dopo vari arresti e aggressioni era riparato in Francia con la famiglia; nel 1930 era segretario del partito socialista unificato, nel ’36 era Commissario politico della Brigata Garibaldi nella guerra di Spagna. Braccato dai tedeschi anche sul territorio francese non ebbe proprio il tempo di correre a Roma a gridare evviva al duce. Neppure Meuccio Ruini lo fece; militante del movimento radicale si oppose fin che poté al fascismo per poi ritirarsi a vita privata; ma già nel 1942 torna in campo per fondare il partito democratico del lavoro. Mario Scelba nel 1939 contava 38 anni; era stato segretario di Sturzo e quando non poté più far politica si attenne alla sua professione forense mantenendo i contatti coi vecchi amici e collaborando alla fondazione della Dc. Emilio Lussu aveva a quell’epoca 49 anni: anche lui era stato deputato, anche lui sull’Aventino. Fu arrestato perché per difendersi da un’aggressione fascista aveva ucciso uno degli assalitori; confinato a Lipari riuscì a fuggire in Francia con Rosselli e Nitti e lì fondò Giustizia e Libertà; partecipò alla guerra di Spagna. Infine Luigi Einaudi, il primo presidente della nuova Repubblica. Nell’anno di cui abbiamo raccontato aveva 65 anni; dopo i severi studi di economia si era avvicinato ai socialisti di Turati e aveva collaborato a Critica Sociale; nel 1919 era stato nominato senatore ed aveva manifestato chiare idee europeiste auspicando la creazione di un’Europa federata. Fu diffidente verso il progetto di riforma costituzionale di Mussolini da cui si staccò quando fu presentata la legge elettorale maggioritaria e si allontanò del tutto al momento del delitto Matteotti. La sua carriera politica non proseguì e anche in quella accademica trovò grandi difficoltà. Aderì all’Unione Nazionale di Amendola e sottoscrisse il Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce ma dovette lasciare la collaborazione al Corriere della Sera ormai addomesticato al regime. Il fascismo lo estromise dalla Bocconi di Milano e dal Politecnico di Torino. Croce insistette perché restasse almeno ad insegnare giurisprudenza a Torino, per evitare che al suo posto venisse nominato un docente fascista. Einaudi non votò a favore dei Patti Lateranensi, votò contro la spedizione d’Etiopia e anche contro le leggi razziali del 1938. Nel 1939 era su un altro pianeta rispetto a chi faceva progetti di guerra. Gronchi, dopo le leggi fascistissime del 1926, si ritirò dalla politica e fu dichiarato decaduto dal Parlamento; per campare si adattò a fare il rappresentante di commercio. Anche Segni che fu costretto ad abbandonare la vita politica e si limitò a fare il docente di diritto non era certo in vena di applausi. Ugo La Malfa nel 1934 era stato chiamato a Milano all’ufficio studi della Banca commerciale italiana, nel ’39 aveva 36 anni, non si spostò a Roma per inneggiare allo scoppio della guerra. Palmiro Togliatti nel 1936 era in Spagna come rappresentante dell’Internazionale comunista; nel ’39, dopo la sconfitta della repubblica cercò di tornare a Mosca ma durante la fuga venne arrestato in Francia: non poté aver parte a quell’inizio di guerra che si avviava col consenso e l’aiuto dell’Unione sovietica. Giorgio Almirante, invece, allora venticinquenne, era probabilmente a piazza Venezia ad applaudire il 10 giugno 1940 quando il suo duce annunciò che la carneficina stava per cominciare: era già un collaboratore de Il Tevere (il quotidiano più fascista de Il Popolo d’Italia) e dette una mano anche al periodico La difesa della razza contro l’inquinamento della nobile stirpe italiana da parte della inferiore razza ebraica. Sandro Pertini era al confino a Ponza. Carlo Azeglio Ciampi era studente all’università di Pisa e si sa che nel 1943 rifiutò i richiami della Rsi che cercava giovani preparati per accrescere il proprio prestigio. Oscar Luigi Scalfaro (27 anni) era un fucino, militante nell’Azione Cattolica quando questa associazione era al bando. Giovanni Leone, 31 anni, era docente di procedura penale e non proprio il tipo da scendere in piazza. Ignazio Silone dopo il drammatico abbandono del partito comunista si era ritirato in Svizzera e da lì continuava a combattere per la giustizia sociale come fece conFontamara, successo letterario europeo, che tracciava l’identikit del proletariato italiano che il duce aveva cancellato dal vocabolario ma continuava ad esistere nella realtà. Giuseppe Saragat, dopo le leggi che avevano soffocato tutti i partiti riparò in Austria; da dove dovette fuggire per l’arrivo dei nazisti e raggiunse gli altri espatriati a Parigi dove arrivarono anche l’anziano Filippo Turati con Sandro Pertini fuggiti entrambi passando dalla Corsica. Nessuno di loro approvò quella guerra. Forse, chissà, l’approvò Amintore Fanfani, laureato alla Cattolica di Milano, amico del magnifico rettore Agostino Gemelli e con lui sostenitore del corporativismo che scrisse anche qualche articolo per il periodico Dottrina Fascista ed approvò il Manifesto della razza. Concludiamo con alcune osservazioni di Zangrandi: in quei mesi di fine ‘39 tra i giovani “c’era qualche minoranza di irresponsabili e facinorosi che puntava baldanzosamente sul conflitto. Ma si trattava di spostati, declassati, giovani avvelenati da quattro anni di abitudine guerresca in Africa o in Spagna i quali potevano vedere nel perpetuarsi di uno stato di guerra un’occupazione conveniente o anche un’occasione per conquistare allori, non importa quanto rischiosi per sé o per il Paese. E c’era anche un certo numero di illusi i quali credevano alle parole d’ordine propagandistiche (…) ma la maggior parte della gioventù rimase inerte, come piombata in una condizione di ossessiva paralisi. (…) ed è ben vero che verso la metà del ’39 la minaccia sempre più incalzante di un conflitto veniva anche a rappresentare una prospettiva nuova, in qualche modo, liberatrice. Ma si poteva, d’altro canto, pensare di opporsi alla guerra, di tentare di scongiurarla, con una iniziativa di pochi che partisse dal basso?

 

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Note

 

Marco Innocenti, L’Italia del 1940, Mursia 1990 Denis Mack Smith, Mussolini, Rizzoli 1981 Ruggero Zangrandi, Il lungo viaggio attraverso il fascismo, Feltrinelli 1962

Jean Marabini, La vita quotidiana a Berlino sotto Hitler, Rizzoli 1987

 

 

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