Un anno di fuoco e di sangue. Fuoco di idee che ribollivano attorno al problema dell’Unità d’Italia, delle alleanze necessarie all’impresa, dei tranelli da evitare perché il tentativo potesse andare a buon fine. Ma anche un anno di sangue perché la seconda guerra di indipendenza che ebbe l’epilogo a Solferino fu terribilmente cruenta. Il 1859 fu anche l’anno dell’esplosione di alcune importanti tematiche che avrebbero fatto fermentare alcuni temi che assunsero sempre più importanza negli anni successivi: quello sulla libertà delle persone e della società e (finalmente qualcuno se ne accorse) della promozione delle donne. Poi il fenomeno dell’economia che Marx cercava di inquadrare da un punto di vista critico-storico-materialistico. Infine il tema dell’evoluzione del genere umano, visto come un segmento dell’evoluzione generale della vita nel cosmo. Il 1859 ebbe come protagonisti Camillo Cavour, Vittorio Emanuele II e i patrioti italiani decisi a costruire finalmente l’unità italiana, Napoleone terzo che sfruttava ogni occasione per accrescere il potere della Francia, Francesco Giuseppe che non voleva passare alla storia come colui che aveva sperperato l’egemonia dell’impero. E anche gli sfruttati lavoratori italiani che faticosamente cercavano di conquistarsi quella promozione sociale che spettava loro.
Che anno formidabile fu il 1859 (centosessant’anni fa)! L’Italia riprese e portò avanti con decisione il progetto della propria unità nazionale, in Egitto si dettero i primi colpi di piccone per realizzare l’agognata scorciatoia che avrebbe unito le acque e i commerci del mare d’Europa con quelli dell’oceano Indiano. E fu un anno fecondo anche per il progresso delle idee, della tecnica e della civiltà; andarono alle stampe tre opere che in campi diversi avrebbero scosso il mondo: Stuart Mill pubblicò il Saggio sulla libertà, Karl Marx la Critica dell’economia politica – in pratica il prodromo de Il Capitale – Darwin L’origine delle specie. Anche gli americani fecero la loro parte: in Pennsylvania fu scavato il primo pozzo petrolifero. In Germania Bernard Riemann, per la gioia di chi la coltiva, arricchì la geometria di un nuovo teorema. Naturalmente il fatto più importante fu la ripresa del processo dell’unità italiana con la seconda guerra di indipendenza che sparò i primi colpi di cannone il 3 maggio. Per inquadrare nel suo contesto questo processo bisogna tornare indietro di un decennio, a quando Carlo Alberto, il 5 marzo 1848, cambiò il suo regime assoluto in costituzionale innescando una serie di reazioni che lo indussero a dichiarare guerra all’impero austriaco che signoreggiava incontrastato sulle regioni più vive dell’Italia.
Il tentativo di Carlo Alberto
Veramente la prima scintilla era scoccata a Roma nel 1848. Morto Gregorio XVI che aveva esercitato una politica molto reazionaria fu eletto papa il cardinal Mastai Ferretti il quale con alcuni discorsi e alcuni atti aveva già infiammato il facile entusiasmo dei liberali. Diventato Papa Pio IX, ritenuto “liberale”, concesse nel suo Stato un’amnistia ai detenuti per reati politici, diede a Roma un governo municipale, ammise i laici nell’amministrazione pubblica, fece anche qualche concessione per la libertà di stampa. In giro per l’Italia non si parlava d’altro e gli intellettuali degli altri Stati e staterelli fecero pressione perché i loro governanti si comportassero allo stesso modo. Anche Ferdinando II a Napoli cedette. Lo fece soprattutto perché Palermo, da sempre insofferente di essere governata da Napoli, si era sollevata. Insomma il movimento indipendentista italiano, quello che nei testi viene solitamente definito Risorgimento, entrò in una fase turbolenta come era già successo a Parigi e a Vienna. Questo stato d’animo si fece sentire anche in Piemonte dove Carlo Alberto, senza troppo entusiasmo e sognando di diventare il re d’Italia, concesse il famoso Statuto inaugurando il regime costituzionale piemontese. A quel punto la Lombardia si sentì fortemente sollecitata a ribellarsi agli austriaci: il 18 marzo Milano insorse, riuscì a mettere in difficoltà il governatore austriaco Radetzky e a cacciare le sue truppe (le Cinque Giornate 18-23 marzo). Lo stesso fece Venezia dove Daniele Manin proclamò addirittura la repubblica. Di fronte a questa situazione favorevole Carlo Alberto fu convinto a dichiarare guerra all’Austria assumendo il comando della lotta per l’indipendenza nazionale. Di entusiasmo in entusiasmo altri principi italiani aderirono alla guerra ed inviarono le loro truppe in Lombardia per battere l’esercito di Vienna. Ma in realtà gli intenti non erano unanimi: a chi combatteva per una causa piemontese si affiancavano i democratici che lottavano per una causa italiana e lo spirito democratico che manifestavano molti impensieriva i principi italiani i quali più che un avversario consideravano l’Austria garante e protettrice della loro autorità. Il colpo peggiore alla quella guerra fu quello inferto da Pio IX che dopo aver inviato in Lombardia un suo contingente militare si rese conto di fomentare uno scontro fra cristiani e quindi fratricida e ritirò le sue truppe. Non sappiamo cosa avrebbe fatto se lo scontro fosse stato tra cristiani e protestanti o tra cristiani e musulmani. Comunque Carlo Alberto continuò, a cavallo, sciabola in pugno, a condurre la guerra ma Radetzky lo batté a Custoza (a fine luglio) per cui fu firmato un armistizio il mese successivo. Trascorsero mesi di incertezza e confusione. Nel marzo 1849 la guerra riprese e il re sabaudo fu sconfitto una seconda volta, a Novara (la “fatal Novara” di Carducci). Carlo Alberto non resse al duplice smacco ed abdicò in favore del figlio Vittorio Emanuele II che concluse subito la pace con Vienna.
Verso la libertà
Tutto tornò come prima. Ad eccezione di Roma dove i mazziniani avevano già provocato un’insurrezione, costretto Pio IX alla fuga (si rifugiò nella fortezza di Gaeta) e proclamato, il 9 febbraio, la Repubblica romana. Così erano riusciti a fare anche i liberali della Toscana contro il loro Granduca. Ma nel lombardo-veneto gli austriaci erano tornati da padroni e più vigilanti di prima; ultima a resistere la Repubblica di Venezia costretta a capitolare per mancanza di cibo e per l’infierire del colera. Poi con calma gli austriaci rimisero sul trono toscano Leopoldo II mentre a Roma ci pensarono i francesi guidati da Luigi Napoleone, corso in aiuto di Pio IX: il 4 luglio mazziniani e garibaldini dovettero darsi alla fuga e il papa tornò in Vaticano. Annotarono gli storici: per conciliarsi i favori della destra cattolica il futuro Napoleone III non aveva esitato ad intervenire contro quella libertà d’Italia di cui sarebbe presto diventato il difensore. Ci si è interrogati anche sui motivi che avevano fatto fallire Carlo Alberto a quel primo tentativo di mettere insieme i tasselli del puzzle italiano: anzitutto la mancanza di coscienza politica delle masse popolari, impreparate e rimaste estranee alla lotta per l’Unità dell’Italia, e poi il suo stesso atteggiamento: era convinto di poter battere gli austriaci che disponevano di un esercito ben armato e addestrato con le sue sole forze, che invece erano impreparate sia come uomini che come mezzi. È partendo da questo che Cavour seppe trovare la strada per recuperare il gap e ripartire con forza. Si lottava per la libertà e qui ricordiamo il saggio di Stuart Mill. Questo signore (nato nel 1806) era entrato giovanissimo nell’ufficio centrale della Compagnia delle Indie diventandone poi il direttore. Quando la società venne sciolta si ritirò ad Avignone dove scrisse i suoi libri. Tutta la sua filosofia è essenzialmente empiristica: sostenne che ogni scienza e conoscenza sono prodotti da un ordinamento sperimentale-induttivo di dati empirici. Sul piano etico è assertore della morale utilitaristica: l’uomo e la società devono cioè tendere al raggiungimento del maggior benessere possibile per il maggior numero possibile di individui. Una concezione che integra motivi liberistici con esigenze di tipo collettivista. Così nel sistema economico – sostenne – si connettono fenomeni sociali e si combinano scienza e fatti concreti. Il suo trattato sulla libertà, scritto nel 1859, fu tradotto in italiano solo un secolo più tardi ma le sue idee circolavano in Europa e non pochi italiani le conoscevano. Dunque cosa era meglio per l’Italia? come poteva raggiungere uno stato di maggior benessere per il maggior numero di individui: se restava divisa e soggetta a molti padroni o unita e padrona delle sue scelte e del suo destino? Cosa doveva scegliere per la propria utilità, visto che tutti si muovevano spinti da questa naturale motivazione? Le idee di Mill si diffondevano, se ne dibatteva suoi giornali, penetravano nei discorsi dei politici. E il 13 luglio 1859 a Firenze vide la luce il primo numero di un nuovo giornale, La Nazione la cui testata in quel contesto sociostorico era di per sé un proclama di libertà. Aggiungiamo solo che Mill (aiutato probabilmente dalla moglie) dette alle stampe anche uno studio dal titolo The Subjection of Women: se la società doveva basarsi sulla libertà, non si poteva mancare di promuovere subito anche le donne.
Uno strano connubio
Dunque dopo le fiammate di Pio IX e Carlo Alberto, dopo le Costituzioni concesse obtorto collo e poi ritirate l’Italia tornò sotto forme di governo reazionarie e ad una virtuale occupazione austriaca. Solo il Piemonte riuscì a mantenersi indipendente e la sua Costituzione (lo Statuto), forse perché era molto conservatrice, non venne ritirata. I politici che non erano graditi nel Lombardo-Veneto, nel Granducato di Toscana, nello Stato della Chiesa, nel Regno di Napoli o negli altri principati andarono a rifugiarsi in Piemonte e Vittorio Emanuele II si guadagnò le loro simpatie perché protestò contro l’Austria per i sistemi repressivi che stava adottando. I movimenti che si erano proposti l’unità della nazione italiana – come nazione unitaria, come confederazione di Stati o in forma di repubblica, guidata da un Savoia, da un papa o dal popolo stesso – ebbero una fase di pausa: bisognava capire bene cosa davvero si voleva, quanto fosse possibile realizzare, scegliere e unire tutte le forze per raggiungere lo scopo. Intanto il re del Piemonte si trovò a gestire grossi problemi: il suo regno usciva da una sconfitta, il suo territorio era diventato il rifugio di intellettuali, di politici e di volontari che avevano combattuto nel 1848 e 49 e ora fuggivano dalla repressione; molti di loro continuavano a prodigarsi per un governo di popolo, rigettavano per principio la monarchia ed erano quindi visti come fumo negli occhi dai sabaudi conservatori. Il clima era di smarrimento e ciò favorì la minoranza democratica che acquistò un peso superiore a quello che effettivamente aveva sul territorio. Roccaforte di democrazia fu soprattutto Genova che dopo la sconfitta di Novara si era ribellata ed era stata sottomessa manu militari. C’era un clima effervescente in città, alimentato soprattutto dalla Gazzetta del Popolo e dall’Opinione, e allargato al contado dall’Associazione agraria attraverso periodici e fogli volanti. Due i nomi di maggior spicco: Lorenzo Valerio e Angelo Brofferio. Il primo in seguito sostenne Cavour (e Mazzini lo criticò perché “voleva fare la repubblica col re”) il secondo restò sempre all’opposizione di sinistra. Era necessario armonizzare tutte le diverse tendenze, costruire un compromesso accettabile per trovare la strada giusta e ripartire. E il re del Piemonte ebbe la fortuna di trovare l’uomo capace di farlo: fu Cavour, un aristocratico intellettuale e imprenditore economico. Nato a Torino nel 1810 aveva studiato all’accademia militare sabauda, era diventato ufficiale del genio, aveva arricchito la sua esperienza con viaggi a Parigi e a Londra dove si era interessato soprattutto alle nuove iniziative agricole e industriali che aveva poi messo in pratica nei suoi possedimenti diventando lui stesso un importate imprenditore. Fondò l’Associazione agraria che dotò anche di una Gazzetta sulla quale faceva conoscere iniziative ed esperienze in atto in Inghilterra che avrebbero potuto far progredire l’economia dell’arretrata società italiana. Molto insisteva sulla costruzione di nuove ferrovie, “strumento di progresso civile al quale, piuttosto che alle sommosse, poteva essere affidata la causa nazionale”. Propugnò la costruzione della TorinoVenezia e della Torino-Ancona. Sosteneva che non la rivoluzione ma “il progresso, che era soprattutto intellettuale e morale, avrebbe prodotto una crisi politica che l’Italia era chiamata a sfruttare” e propugnava la libertà economica, “causa di interesse generale, destinata a favorire tutte le classi sociali”. Nel 1847 col liberale cattolico Cesare Balbo fondò il periodico Il Risorgimento sul quale si schierò a favore della Costituzione. L’anno dopo con le prime elezioni in regime costituzionale fu eletto deputato nelle liste della destra. Dopo il turbolento biennio 4849, alle elezioni del dicembre 1849 Cavour divenne uno dei politici dominanti del Parlamento piemontese e da questa posizione di forza sostenne anche uno scontro con lo stesso Pio IX. La situazione era tutt’altro che tranquilla. Ha spiegato Giovanni Spadolini: “La sfiducia nelle istituzioni parlamentari, così recenti, così malferme aumentava nel Paese; vi soffiavano sopra i clericali e i radicali. Il distacco fra Paese reale e Paese legale tendeva ad approfondirsi e non era certo il sistema elettorale – oligarchico e censitario – che poteva superare quel divorzio. Colmare quel fossato”. Insomma la vecchia provincia piemontese e sarda, mai abituata a istituti liberi, sottoposta ad una forte influenza religiosa, con un re che procedeva d’accordo con la conservazione, nel culto dell’amministrazione e nella paura della gens nova e con due guerre perse alle spalle su cosa poteva appoggiarsi per cominciare il rinnovamento? La soluzione la trovò Cavour: “Il connubio fu la manovra ideata da Cavour per sfuggire al pericolo di una vittoria della destra che avrebbe catturato una parte dello stesso centro, infrenato la politica di riforme, compromesso i titoli di benemerenza acquistati col ‘48”. Cosa fu questo “connubio”: la coalizione realizzata nel parlamento subalpino nel maggio 1852 tra Cavour garante del centrodestra e Ugo Rattazzi rappresentante del centrosinistra durante il governo D’Azeglio. Si venne così a creare una maggioranza parlamentare necessaria per quella politica liberale che Cavour avrebbe realizzato appena chiamato a presiedere il nuovo governo. Il che avvenne nel novembre 1852. E che – con un salto in avanti di quasi due secoli – ci fa tornare alla mente l’attuale situazione italiana passata da una coalizione giallo/verde (29 agosto) a quella giallo/rossa (5 settembre) di pochi mesi fa. Quella cavouriana fu un’operazione proficua, quella del 2019 è tutt’ora in pericoloso fieri.
Un Piemonte in cerca di promozione
Insomma Vittorio Emanuele II trovò in Cavour “la grande personalità in grado di elaborare e poi guidare un progetto politico credibile, composto sia da riforme interne sia da una politica estera finalizzata a sottrarre il Piemonte dall’isolamento internazionale e trovare alleati che lo aiutassero in una eventuale ripresa della guerra per l’unità d’Italia”, ha scritto Marco Scardigli. Con Cavour cominciò un decennio di profonde riforme economiche, sociali e anche militari poiché l’esercito piemontese aveva dato cattiva prova di sé. Ai membri della vecchia nobiltà sabauda vennero associate persone nuove: elementi che avevano sperimentato i moti degli anni ’30, molti dei quali avevano subito l’esilio; molti avevano combattuto all’estero e avevano maturato più profonde esperienze. In questo contesto maturò la decisione di partecipare alla guerra di Crimea del 1853-1856. Un conflitto che non aveva alcun rapporto con la situazione italiana: la Russia, sempre alla ricerca di uno sbocco diretto nel Mediterraneo, aveva approfittato della debolezza dell’impero ottomano per crearsi appunto questo sbocco; Francia e Inghilterra si erano intromesse a favore di Costantinopoli e dopo alcuni scontri nei Balcani avevano deciso di attaccare direttamente l’esercito dello Zar in Crimea; appena s’accorsero che l’impresa non era così semplice come avevano immaginato chiesero aiuti e Cavour non si lasciò sfuggire l’occasione: fece allestire un esercito di 18 mila uomini, lo affidò al generale Lamarmora e lo inviò nel Mar Nero. Compito degli italiani fu di tener testa ai russi lungo un lato del fronte e di partecipare alla battaglia della Cernaia (dove caddero 14 piemontesi); gli alleati assediarono e fecero capitolare la fortezza di Sebastopoli ma poi subentrarono il colera (duemila gli italiani che vi persero la vita) e la diplomazia e il conflitto fu spostato ad una conferenza che si tenne nella solita Parigi. Quella l’occasione nella quale Cavour andò a riscuotere, ponendo sul tavolo la questione dell’unità italiana. E di tale questione approfittò anche Napoleone III per rilucidare l’orgoglio francese. Questo Napoleone, di nome Luigi, era nipote di Napoleone I (figlio di un suo fratello minore, anche lui Luigi, cui era stato affidato il regno del Belgio). Infatuato dall’idea di emulare il grande Bonaparte, già a vent’anni organizza un paio di inutili colpi di Stato per scalzare dal trono francese Filippo d’Orléans. È in esilio a Londra quando il 24 febbraio 1848, da un’ennesima rivoluzione parigina, il re Filippo è costretto a dimettersi. Torna immediatamente in Francia e riesce a farsi eleggere deputato; cerca l’appoggio della classe lavoratrice e presenta la sua candidatura alla presidenza della Repubblica e ci riesce alla grande perché gioca a suo favore il fatto di essere nipote del grande indimenticato imperatore: su sette milioni e mezzo di elettori cinque milioni e mezzo lo votano. Ora il presidente Luigi Bonaparte sogna l’ultimo salto, fino al livello dello zio: farsi nominare imperatore. E riesce anche in questo: chiamati alle urne più di sette milioni e ottocentomila cittadini gli dicono di sì; solo 253 mila i contrari. Assume il nome di Napoleone III, perché di figlio diretto di Napoleone I, il famoso “Re di Roma” era morto giovinetto in esilio a Vienna dopo la condanna del padre all’isola di Sant’Elena. Ci riesce nonostante un attentato: la sera del 14 gennaio 1858 un gruppo di anarchici italiani butta bombe contro la sua carrozza mentre va all’Opera. Dodici morti e un centinaio di feriti tra la folla acclamante, lui e la moglie Eugenia salvi. I quattro attentatori volevano punirlo per aver soffocato la Repubblica romana; arrestati, due furono condannati a morte, gli altri due ai lavori forzati. Il capo del gruppo, Felice Orsini, prima di perdere la testa gli scrisse: “Per conservare l’attuale equilibrio d’Europa bisogna rendere l’Italia indipendente o stringere le catene sotto le quali l’Austria la tiene in schiavitù. Scongiuro vostra maestà di rendere alla mia patria l’indipendenza che i suoi figli hanno perso nel 1849 proprio per colpa dei francesi. Vostra maestà ricordi che finché l’Italia non sarà indipendente la tranquillità dell’Europa e quella di vostra maestà saranno solo una chimera”. Chissà se queste parole facilitarono l’incontro dell’imperatore col ministro Cavour.
Il delicato ruolo di Cavour
Dunque Napoleone III aveva bisogno di consolidare il suo prestigio in Europa e Cavour cercava appoggi prima di impelagare il Piemonte in uno scontro contro l’Austria per dare prestigio a Vittorio Emanuele II che intendeva guidare il regno sabaudo a diventare regno d’Italia. I due si incontrarono a Plombière e stabilirono che la Francia si sarebbe schierata a fianco del Piemonte qualora fosse stato attaccato dalle armi austriache. Toccava ora a Cavour provocare l’Austria ma andava fatto con sottile astuzia: bisognava che la futura guerra apparisse come aspirazione nazionale e non solo piemontese anche se il Piemonte non voleva farsela sfilare di mano. Per apparire come istanza nazionale doveva essere appoggiata e sostenuta dalle varie popolazioni della penisola ma senza connotazioni rivoluzionarie che le potenze europee temevano perché contagiose e non avrebbero accettato. Il gioco non era semplice e neppure accettato pacificamente all’interno dello stesso Piemonte: sia dai conservatori che dai democratici per motivi contrapposti. “Un gioco politico sottile e anche ambiguo”, è stato definito. Che però funzionò, tanto che Daniele Manin e Giuseppe Garibaldi – repubblicani – lo accettarono. E Garibaldi col suo carisma richiamò volontari da ogni parte. Naturalmente la società austriaca ne fu allarmata, capì che il Piemonte voleva essere il paladino del Risorgimento italiano per aggregarsi tutto il nord Italia sotto protezione francese per cui il governo di Vienna decise di stoppare il progetto sul nascere, prima che gli arrivassero gli aiuti di Parigi. Il 23 aprile 1859 inviò a Vittorio Emanuele un ultimatum: doveva licenziare i volontari di Manin e Garibaldi e cessare ogni preparativo di guerra. Era proprio quello che Cavour si aspettava: era stato minacciato, ora poteva muoversi. Ma i francesi non erano ancora arrivati e gli austriaci, guidati dal generale imperiale Ferencz Giulay senza perdere tempo oltrepassarono il Ticino. Non avevano però un piano preciso, Giulay esitò: meglio puntare su Alessandria per bloccare i rinforzi francesi che sarebbero giunti da Genova oppure puntare direttamente su Torino col pericolo di trovarsi poi il nemico alle spalle? O puntare su Genova per bloccare i francesi? Napoleone s’era invece mosso con decisione da entrambe le direzioni: via mare da Genova e via terra dalla Val di Susa e, a quanto si racconta, furono decisive per gli spostamenti di truppe e artiglierie le tratte ferroviarie tra Genova, Alessandria e Torino. Giulay fu colto di sorpresa e costretto a ripassare il Ticino e tornare il Lombardia. Non era semplice però riportare indietro rapidamente uomini, cavalli, armamenti e vettovaglie: la battaglia fu combattuta a Magenta, quasi solo dai francesi, fu uno scontro sanguinoso che costrinse gli austriaci ad arretrare ed arretrarono fino al Garda per potersi riorganizzare. Anche perché alla sinistra delle loro forze in ritirata agiva Garibaldi coi suoi Cacciatori delle Alpi (battaglie di Varese e San Fermo) che Giulay non capiva quale disegno perseguissero. Tutta la batteria austriaca si mise quindi al sicuro nel famoso Quadrilatero, l’area fortificata già dal 1815, che comprendeva le città di Peschiera e Verona, Mantova e Legnago tra il Mincio, il Po e l’Adige cui era stata aggiunta una seconda cerchia più esterna di altri 8 forti. Era considerata una delle zone più fortificate d’Europa.
Lo scontro decisivo di Solferino
Così Vittorio Emanuele e Napoleone III entrarono trionfalmente a Milano ma, da quanto è stato tramandato, gli entusiasmi dell’imperatore francese cominciarono presto a raffreddarsi. Per vari motivi: s’aspettava che le città lombarde si sarebbero sollevate spontaneamente e avrebbero facilitato la guerra ma non avvenne; le sue forze di punta – gli zuavi e i turcos (che in realtà erano algerini) – andavano all’assalto all’arma bianca e la guerra perdeva di stile, diventava ad ogni scontro una macelleria. Inoltre – e questo forse è il motivo principale – Napoleone III aveva escogitato di costituire nell’Italia centrale un regno francofilo da offrire al cugino Gerolamo Bonaparte; invece in Toscana, nei ducati dell’Emilia (Parma e Modena) e nelle città di Romagna che appartenevano allo Stato pontificio le popolazioni, dove spontaneamente e dove sollecitate, si erano ribellate a chi le governava e chiedevano l’annessione al Piemonte. Inoltre gli storici aggiungono che in Francia ci si interrogava su quale utilità rivestisse per il loro Paese quell’intervento dell’imperatore a favore del Piemonte, soprattutto dopo che la Prussia aveva cominciato a brontolare e a minacciare di intervenire perché non tollerava un allargamento della Francia dopo quanto era stato fatto per ridimensionare Napoleone I. In questo contesto di incertezze e sospetti avvennero gli scontri di San Martino e Solferino il 24 giugno 1859. Due giorni prima era stato il solstizio d’estate (e dunque giornate lunghe), il giorno prima la festa del Corpus Domini. Quel giorno 24 era la festa di San Giovanni e sui calendari appesi nelle cucine dei contadini si poteva leggere un proverbio adatto alla circostanza: “Chi non risica non rosica”. Fu chiamata la battaglia dei tre re poiché erano presenti sia Vittorio Emanuele II col suo alleato Napoleone III che l’imperatore Francesco Giuseppe. La località – Solferino – è una cittadina situata nella conca morenica a sud del lago di Garda a metà strada fra Brescia e Verona (ora in provincia di Mantova); San Martino è una collina poco a nord di Solferino. Fu una battaglia unica, l’ala italiana era schierata sulla sinistra, a San Martino e quella francese sulla destra, a Solferino. Complessivamente vi presero parte circa 235 mila uomini, fu la prima grande battaglia dopo quelle napoleoniche: il fronte esteso per circa 20 chilometri: dal Garda fino a Castel Goffredo. Tecnicamente gli alleati vinsero per un uso migliore della cavalleria, per l’attento impiego della Guardia e per l’utilizzo dei nuovi a cannoni francesi a canna rigata più precisi e potenti di quelli degli avversari. Le cifre ci raccontano di 2.500 caduti, 12 mila feriti e circa 2000 tra dispersi e prigionieri italo-francesi e, sul fronte opposto, di 2.386 caduti, 10.800 feriti, 8638 prigionieri e dispersi. Non entreremo nei particolari tecnici della condotta dello scontro che però fu inteso come determinante e infatti da quel 24 giugno gli austriaci furono costretti a ritirarsi definitivamente dalla Lombardia. A ricordo dell’evento sul colle di San Martino nel 1880 fu iniziata la costruzione di una torre, inaugurata tredici anni più tardi dal re Umberto I. Sulla cima, un faro tricolore continua a lanciare il grido di vittoria di quella fatidica giornata.
La Croce rossa
Riferiscono i testimoni che finito lo scontro i luoghi delle battaglie erano diventati un regno dell’orrore: ovunque una distesa di corpi di morti e moribondi e solo pochi rimasti illesi che aiutavano i commilitoni. Per caso quel giorno si trovava in quei paraggi un medico svizzero – Jean H. Dunant – che rimase assai colpito della carneficina che si stava consumando in quell’angolo della Lombardia e subito comprese quali problemi umanitari sorgessero quando due eserciti si scontravano. Tornato in patria scrisse Souvenir de Solferino (subito tradotto in una ventina di lingue) col quale propose l’organizzazione di un corpo di infermieri volontari per seguire i belligeranti e prestare soccorso ai feriti che abbandonati sul campo di battaglia erano destinati quasi sempre alla morte. Qualche anno dopo si tenne un convegno a Ginevra dove furono progettate le società nazionali della Croce rossa e con la Convenzione del 1863 ne furono sanciti i principi fondamentali; la “neutralità” delle strutture e del personale sanitario: sarebbero rimaste estranee a qualsiasi genere di ostilità e di controversia di ordine politico, razziale o religioso; l’indipendenzadai comandanti militari e dai governi; l’imparzialità in modo da poter soccorrere chiunque senza distinzione di patria o di religione; l’umanità: unico scopo soccorrere e lenire le sofferenze favorendo la comprensione reciproca, l’amicizia, la cooperazione e la pace; la volontarietà, nessun altro scopo che quello di aiutare il prossimo, nessun guadagno; l’universalità con tutte le associazioni nazionali di Croce rossa di un altro Paese.
Il contestatissimo trattato di Villafranca
Dunque Francesco Giuseppe, battuto, ritirò i suoi uomini al di là del fiume Mincio ma Napoleone III non manifestò nessuna intenzione di non dargli tregua: prima chiese la mediazione inglese, che non ci fu, poi cercò il contatto diretto con gli austriaci: ottenne una tregua. L’11 luglio si incontrò direttamente con l’imperatore in una casa di Villafranca e stabilirono: 1- l’Austria cedeva la Lombardia (eccetto Peschiera e Mantova) a Napoleone III che l’avrebbe passata a Vittorio Emanuele II; 2- i principi scacciati dai loro principati sarebbero tornati nel loro precedente potere; 3- questi regnanti, assieme allo stesso Francesco Giuseppe per il Veneto avrebbero costituito una federazione sotto la presidenza del papa. Il trattato di Villafranca fu subito ritenuto da Cavour come un “tradimento”. Il capo del governo piemontese arrivò il giorno dopo al quartier generale italo-francese per denunciare la “violazione dei patti” che prevedevano la liberazione di tutta l’Italia dall’austriaco. I patrioti che avevano sostenuto il Piemonte in questa guerra si dichiararono sgomenti: chiesero che Vittorio Emanuele non accettasse il patto stabilito tra i due imperatori, doveva ribellarsi, proseguire la guerra da solo, dimostrare che lo scontro era nazionale e non francese. Mazzini, che non aveva mai approvato l’alleanza con Napoleone, era inferocito. Invece Vittorio Emanuele non si ribellò: accettò le dimissioni subito presentate da Cavour, lo sostituì al governo con Lamarmora e firmò il trattato di Villafranca aggiungendovi la postilla “per quanto mi concerne”, interpretata come “non mi pronuncio per le province ribellatesi all’Austria”. Ma la domanda che tutti si ponevano in quel momento era sull’atteggiamento di Napoleone. Perché quell’improvviso cambio di fronte? Le risposte furono più d’una: era rimasto impressionato dall’orrore dello scontro; lo scontro si era trasformato in un assedio e le forze nemiche non erano affatto annientate: per portarlo a termine occorreva molto più tempo di quanto aveva previsto e molte più forze di quelle che aveva messo in campo e non sarebbe stato semplice obbligare la Francia a disporre nuove leve. Soprattutto lo avevano bloccato ragioni politiche: perché l’Inghilterra non aveva accettato di mediare? Gli era arrivata inoltre notizia di un parziale schieramento della Prussia alla linea del Reno e gli era stato fatto notare che i tedeschi nel loro rinnovato nazionalismo consideravano le province italiane dell’Austria come avamposti della nazionalità tedesca. Non solo: i moderati-clericali francesi temevano che la condotta del loro imperatore finisse di creare problemi per la sovranità del papa. Infatti le forze patriottiche italiane, infervorate dall’urto vincente contro l’Austria si stavano coagulando, spingevano verso un’Unità che né lui né la Francia approvavano. Tentava dunque di fermarle su posizioni federaliste. Ma era troppo tardi. Villafranca fu giudicata dai contemporanei “un disastro” e tuttavia – dicono gli storici – fu un’esperienza positiva perché scosse dall’Italia la troppo pesante protezione francese e la sua politica spesso ambigua. Napoleone III incassò la ricompensa che Cavour gli aveva promesso a Plombière: Nizza e la Savoia divennero francesi; da parte sua Parigi aggiunse un decreto per vietare che in Corsica si parlasse ufficialmente la lingua italiana. È noto che quest’isola era appartenuta ai focesi, ai cartaginesi e ai romani. Poi era divenuta proprietà della Repubblica di Pisa; nella battaglia della Meloria (1284) le fu sottratta dai genovesi. Nel 1553 fu occupata dai francesi poi tornò a Genova che nel 1768 la vendette alla Francia per 40 milioni. Un’isola sempre ribelle e in cerca d’autonomia che si sottomise alla Francia solo quando dalla sua terra spuntò Napoleone. Occupata dall’esercito italiano nel 1942 e poi da quello tedesco, nel 1943 fu il primo territorio liberato dalle forze francesi.
Le annessioni
Il 10 novembre di quel 1859 fu sottoscritto a Zurigo un trattato di pace sulla base delle premesse di Villafranca. Nel frattempo, tuttavia, nei principati dove doveva essere restaurata la situazione antecedente erano avvenuti fatti nuovi. Vittorio Emanuele aveva ritirato i suoi Commissari ma le città insorte nominarono subito al loro posto alcuni dittatori: Bettino Ricasoli in Toscana, Carlo Farini a Modena, altri a Parma e a Bologna e questi convocarono le assemblee, elette con larga partecipazione di popolo, e tra l’agosto e il settembre fecero votare l’unione della loro provincia alla monarchia costituzionale di Vittorio Emanuele II. E allestirono un esercito di alcune decine di migliaia di giovani affidandolo a Manfredo Fanti, cui collaborava anche Garibaldi, che scalpitava per entrare in azione nei territori pontifici. Insomma alla fine del 1959 la situazione era la seguente: gli Stati europei – in particolare la Francia – volevano il reinsediamento dei principi nei loro principati, i quali non avevano però la forza per tornare e reinsediarsi e ben sapevano che il clima popolare era loro avverso. La gente voleva essere governata dal re del Piemonte ma il re del Piemonte non poteva accettare i loro voti né venire loro incontro perché legato ai patti che erano stati alla base della guerra. Di nuovo dunque una fase di incertezza e di stallo, né il gabinetto Lamarmora seppe districarsi. Nel gennaio 1860 fu richiamato Cavour che di nuovo risolse la situazione. Ma è ormai un nuovo anno, denso di molte altre vicende di cui parleremo in altra occasione. Aggiungiamo solo alcune altre righe del ritratto che dello statista piemontese tracciò Spadolini: il connubio aveva permesso a Vittorio Emanuele II di poter disporre di un gruppo dirigente non più piemontese ma italiano: “quel partito di governo, liberale e riformatore, che sarà la destra storica e che, esaurita la funzione della destra prenderà altri nomi e realizzerà altri connubi. Ma sempre centro: un centro che riassumeva in sé le alternative e le opposizioni costituzionali che era impossibile esplicare nella Camera che esauriva i termini della dialettica liberale impedendo che le prudenze della destra e le intemperanze della sinistra compromettessero tutto, a vantaggio dei nemici di ieri e di oggi, la reazione e il sovversivismo”. Di quell’acceso ’59 di guerra e del precedente ’48 ci sono rimasti la storia e tanti trofei. E una piccola serie di canti patriottici che i combattenti di allora cantavano per sentirsi uniti e darsi coraggio e molti di noi hanno forse sentito canticchiare dai nostri nonni. “Addio mia bella addio, l’armata se ne va e se non partissi anch’io, sarebbe una viltà… L’antica tirannia, grava l’Italia ancor: io vado in Lombardia incontro all’oppressor…”. Questo fu il canto di guerra più cantato durante tutto il Risorgimento; lo scrisse Carlo Alberto Bosi (avvocato fiorentino) per i volontari toscani che nel 1848 partivano per combattere a Curtatone. L’Ode a Venezia con la celebre quartina “Il morbo infuria, il pan ci manca, sul ponte sventola bandiera bianca” fu scritta da Arnaldo Fusinato, un vicentino accorso a difendere la Repubblica lagunare, assediata dagli austriaci. Luigi Mercantini fu l’autore de La spigolatrice di Sapri con quel tragico ritornello:
“Eran trecento, eran giovani e forti e sono morti” che celebrò l’impresa di Pisacane. Dalla penna dell’avvocato e poeta padovano Antonio Gazzoletti, protagonista del sollevamento antiaustriaco di Trieste del ‘48, uscì la sestina: “Dovunque all’ombra dei tre colori/ in fermo accordo, fraterni cori/ stanchi del vile lungo servire/ giurar di vincere o di morire/ e al vinto stendere poi la mano/ è la gran patria dell’italiano”. E, naturalmente, l’indimenticabile autore del nostro inno nazionale Goffredo Mameli che già dieci anni prima aveva avvertito tutti: “L’Italia s’è desta!”.
Il primo seme dei sindacati operai
Mentre accadeva tutto questo la società italiana, in parte sotto re Vittorio Emanuele, in parte ancora sotto altre signorie, continuava faticosamente ad evolversi e a conquistarsi pur tra mille difficoltà i propri diritti. Fin dal 1848 lo Statuto Albertino aveva concesso ai sudditi la facoltà di potersi riunire liberamente e un decreto del 26 settembre dello stesso anno aveva abrogato la norma del Codice penale: “contro qualsiasi associazione di più persone organizzate in corpo”. Questa misura venne poi estesa a tutti i territori annessi al Regno Sardo dando via libera alle Società di mutuo soccorso. La prima di queste Società era sorta proprio a Torino nel 1850, seguita due anni dopo da quella milanese. Erano organizzazioni di classe in quanto abbracciavano soci per la maggior parte operai ma mancava ad esse qualunque caratteristica che potesse farle considerare proprio come organismi di classe. Dal Piemonte si espansero alla Liguria e poi alla Toscana. Il loro strumento di aggregazione era il congresso annuale. Il primo lo tennero ad Asti nel 1853, i successivi in altre città piemontesi; nel 1859, al tempo della guerra, il congresso fu tenuto a Novi Ligure. In seguito i congressi presero carattere nazionale. Nel secondo congresso nazionale (Firenze 1861) venne messa in discussione la caratteristica delle Società di occuparsi solo di assistenza e solidarietà: i mazziniani posero anche il problema dell’orientamento politico e l’esigenza di “condurre il movimento operaio sul terreno dell’opposizione politica”. Per cui quel congresso deliberò: “la questioni politiche non sono estranee ai suoi istituti quando le riconosce utili al loro incremento e consolidamento”. Il seme del sindacato operai era stato gettato. La classe imprenditoriale era già molto più avanti tanto che il 25 aprile aveva dato il via ai lavori per scavare un canale che mettesse in comunicazione il Mediterraneo col Mar Rosso e l’Oceano Indiano. È noto che all’inizio del secondo millennio aC i Faraoni avevano fatto collegare il ramo pelusiaco del Nilo ai Laghi Amari e questi col Mar Rosso. Il canale era soggetto però a periodiche inevitabili insabbiature, fino a sparire del tutto. Nel V sec. fu restaurato da Serse e più tardi riaperto dai Tolomei ma dopo la conquista araba dell’VIII secolo venne abbandonato. Alla fine del 1400, quando si cominciò a cercare una via per le Indie circumnavigando l’Africa, si ripensò al canale. Napoleone nel 1899 ordinò di studiare un progetto fattibile ma solo l’imprenditore Ferdinand Lesseps (che era amico del viceré d’Egitto Said Pascià) riuscì a fondare la Compagnia del Canale cui venne appaltata la commessa e il permesso di iniziare i lavori: dei tre progetti che erano stati presentati venne scelto quello dell’italiano Luigi Negrelli che aveva disegnato una canalizzazione diretta. I lavori furono subito contrastati dalla Gran Bretagna poiché quella scorciatoia avrebbe permesso a tutte le nazioni europee, soprattutto alla Francia, d’arrivare ai Paesi orientali prima degli inglesi. Negrelli era un ingegnere trentino, cittadino austriaco, laureato ad Innsbruck e grande esperto di linee ferroviarie. Tre anni dopo l’inizio dei lavori il sovrano d’Egitto bloccò l’iniziativa poiché la Compagnia del Canale fu accusata di utilizzare manodopera forzata: l’inghippo venne superato per l’intervento di Napoleone III che salvò l’impresa e il traffico del canale poté essere inaugurato nel 1863 dalla sua stessa moglie, l’imperatrice Eugenia.
Alcuni libri di allora tutt’altro che invecchiati
Il 1859 fu un anno formidabile anche per le opere che vennero pubblicate e che fecero scalpore, a cominciare da Nido di nobili di Ivan Turgenev. Narra le vicende di un cittadino russo attratto, come tutti gli intellettuali del suo tempo verso l’Europa, verso Parigi, anche perché educato da un padre fanatico ammiratore del progresso occidentale. Ma da Parigi torna amareggiato e deluso, rifiutando quel tipo di progresso che aveva conosciuto, rassegnato ad accettare la vita nelle forme umili ed immediate come gli si offrivano nel suo Paese, la vita autentica della profonda tradizione russa. Era un invito a non cercare altrove l’autenticità dell’esistenza, ma dentro se stessi, alle proprie radici, nel profondo delle tradizioni del proprio popolo. Naturalmente ben maggiore fu l’impatto provocato da Sull’origine delle specie per selezione naturale pubblicato (e subito esaurito) da Charles Robert Darwin che capovolgeva tutte le nostre conoscenze del mondo: le specie animali non sono immutabili ma variano nel corso del tempo, non secondo un progetto ma per effetto di modifiche casuali che vengono poi selezionate dall’ambiente. Era un’idea del tutto nuova che sconvolse il modo di intendere la posizione dei viventi, in particolare della nostra specie, nel mondo. La natura non era una costruzione stabile che tende sempre ad una maggior perfezione, è una lotta, un continuo trasformarsi, un sovrapporsi. Gli umani – sosteneva Darwin – non sono gli esseri più perfetti del pianeta, ma solo quelli che meglio si sono adattati alle circostanze. Naturalmente la rigida convinzione dei creazionisti veniva terremotata, con tutte le reazioni che si possono immaginare; invece proprio lo studio di Darwin metteva nella sua giusta luce l’idea di un creatore e relegava nel mondo dei tanti miti di genere il racconto dei primi capitoli della Genesi. La vita sulla terra assumeva una nuova profondità, un nuovo significato: non tanto quello di evoluzionismo progressivo ma di “selezione naturale”, di continuo adattarsi, di continua lotta e quindi di continuo impegno. Il libro fu tradotto in italiano nel 1875. Poi arrivò Per la critica dell’economia politica di Karl Marx che sarebbe oltraggioso tentar di riassumere in quattro righe: è un saggio economico, una anticipazione de Il Capitale, un’analisi della produzione capitalistica di allora e della teoria quantitativa della moneta. Marx traccia una revisione critica della filosofia del diritto di Hegel, scrisse che “i rapporti giuridici e le forme politiche dello Stato non possono intendersi per se stessi, né per mezzo del cosiddetto sviluppo generale dello spirito umano: ma anzi hanno radice nei rapporti materiali della vita… e che inoltre l’anatomia della società civile è da cercarsi nell’economia politica”. E così egli sintetizza le ricerche intorno all’economia politica, tacciando le linee principali del materialismo storico: i rapporti fra gli uomini sono necessari e indipendenti dal loro arbitrio, sono rapporti di produzione e corrispondono ad un determinato grado di sviluppo delle materiali forze di produzione. L’insieme di tali rapporti costituisce la struttura economica della società, ossia la base che determina innanzi e soprattutto il processo sociale, politico e intellettuale della vita. Non è la coscienza dell’uomo che determina il suo essere, ma è il suo essere sociale che determina la sua coscienza. A un dato punto del loro sviluppo le forze produttive materiali della società si trovano in contraddizione coi precedenti rapporti della produzione, dentro i quali tali forze s’erano mosse in antecedenza. E allora subentra un’epoca di rivoluzione. Sempre in quell’anno venne diffusa anche una fosca favola di Hans Christian Andersen, La fanciulla che calpestò il pane e che fu punita perché per oltrepassare una pozzanghera senza sporcarsi le scarpette nuove ci aveva gettato una pagnotta che avrebbe invece dovuto portare a casa ai suoi genitori. La favola ha un lieto fine, ma dopo molte peripezie, e ci ricorda quanto fosse prezioso allora un pezzo di pane e quanto lo è ancora oggi in tante regioni del mondo.
La piccola sommossa di Perugia
Il 14 giugno, mentre in Lombardia si stava preparando la guerra scontro contro l’Austria, a Perugia scoppiò una piccola rivoluzione rivoluzione. È un fatto poco noto che i manuali di storia di solito liquidano in poche righe. Come i toscani anche molti giovani umbri erano accorsi al richiamo di Garibaldi e a Perugia era stato preparato un comitato insurrezionale, collegato con la Società nazionale, che aveva chiesto al governo pontificio (l’Umbria faceva parte dello Stato del papa) di abbandonare la posizione di neutralità e di collaborare col Piemonte contro l’Austria. Il rappresentante del papa si rifiutò di trasmettere tale richiesta a Roma e allora il comitato lo cacciò e offrì la città a Vittorio Emanuele. Il governo pontificio, prima che l’ondata insurrezionale si propagasse e contagiasse tutta la regione volle riprendere le redini della città con la forza. Il compito fu affidato ad un reggimento francese comandato da Antonio d’Altorf che da Foligno il 20 giugno mosse su Perugia vincendo facilmente la debole resistenza cittadina: i resistenti furono facilmente sopraffatti e ne seguì la solita ondata di violenze e saccheggio. Raccontò lo storico Pasquale Villari: “Furono saccheggiate una trentina di case dove fu fatto massacro di donne. Furono invasi un monastero, due chiese, un ospedale ed un collegio di orfane e due giovinette furono contaminate. Il governo rivoluzionario fu bandito dalla città”. Risiedeva in Perugia anche una famiglia di cittadini americani che riuscirono a salvarsi. L’ambasciatore Usa a Roma riferì poi al suo governo: “Una soldataglia brutale e mercenaria fu sguinzagliata contro gli abitanti che non facevano resistenza; quando finì quel poco di resistenza che era stata fatta persone inermi e indifese, senza riguardo a età o sesso, furono violando l’uso delle nazioni civili, fucilate a sangue freddo”. In seguito Giosuè Carducci scrisse il sonetto Per le stragi di Perugia rimarcando l’inconciliabilità tra il Vangelo e il sangue sparso in quell’occasione. Nel 1909, a ricordo di quell’insano intervento armato i perugini eressero una colonna-monumento. I labari sventolati in quei giorni, listati a lutto, furono affidati alla Società operaia di mutuo soccorso che ancora li custodisce.
La scuola rinnovata
Fra le tante cosa avvenute nel 1859 va ricordata la pubblicazione di una legge molto importante: il regio decreto legislativo n.3725, noto come legge Casati che riformava in maniera organica tutto il vecchio sistema scolastico e che dopo l’Unità divenne la legge base della scuola italiana. Non fu discussa in Parlamento: per i poteri concessi dal re venne preparata da una Commissione che stese il progetto sulla base delle esperienze introdotte nel Lombardo-Veneto dagli austriaci: fu adottato un sistema molto gerarchizzato e centralizzato. Il livello elementare era di quattro anni, gratuito e a carico dei Comuni; quello secondario che doveva essere presente in ogni provincia era articolato in ginnasio (5 anni) a carico dei Comuni seguito dal liceo (tre anni) a carico dello Stato. L’istruzione tecnica (tre anni) era gratuita e a carico dei Comuni, seguita da tre anni di istituto tecnico a carico dello Stato. La legge si occupava della formazione dei maestri e dei professori, per cui anche l’università cambiava. Alle tre facoltà di origine medievale: teologia (soppressa nel 1873), giurisprudenza e medicina furono affiancate lettere e filosofia, scienze fisiche, matematiche e naturali, cui venne annessa una scuola per ingegneria (3 anni). Quanto all’insegnamento della religione lo Stato laico decise: alle elementari era di competenza dei parroci, alle superiori ne erano competenti i vescovi che ne furono però estromessi nel 1877. La legge Casati prescriveva che la scuola elementare fosse gratuita e obbligatoria ma l’obbligatorietà venne largamente disattesa. L’Istat ha calcolato che nel 1861 l’analfabetismo maschile era del 74% e quello femminile dell’84, con punte anche del 95% nell’Italia meridionale. E non solo per la poca efficienza (anche economica) dei Comuni ma perché il 70% della popolazione della prima Italia era dispersa nel lavoro agricolo che non aveva mai orario ed era lontano dalle poche scuole presenti.
Un fiorire di giornali
La seconda guerra di indipendenza che liberò la Lombardia dall’occhiuto governo di Vienna e promosse l’adesione a Vittorio Emanuele degli ex ducati emiliani e della Toscana fece spazio alla libertà di stampa: nacquero alcuni giornali sui quali prese voce il dibattito politico, la discussione dei problemi delle città e della campagna, l’idea stessa di democrazia. Il 14 giugno uscì il primo numero de La Gazzetta Provinciale di Brescia, organo del Circolo nazionale, associazione politica vicina alla sinistra liberale. Si stampava due giorni la settimana (che nel 1860 divennero tre) coordinata da Giuseppe Zanardelli e Francesco Cuzzetti. Una settimana dopo, non appena il ducato di Modena e Reggio decise di aderire al Regno di Vittorio Emanuele II, uscì il quotidiano La Gazzetta di Modena.Il 13 luglio, dopo che la Toscana col plebiscito aveva chiesto di aderire al nuovo Stato che si stava costituendo nel Piemonte-Lombardia ecco a Firenze La Nazione, moderato conservatore, un giornale in grado di poter essere da subito diffuso a livello nazionale. Il primo settembre nacque La Sentinella Bresciana, organo della destra storica, con cadenza trisettimanale (diverrà quotidiano l’anno dopo). A novembre, pochi giorni dopo l’annessione ufficiale della Lombardia al Regno di Sardegna, arrivò nelle edicole di Milano La Perseveranza, fondato dalle famiglie patrizie della città, di idee liberali e monarchiche, che sostenevano la linea di Cavour. Ma tutto il nord del Paese era ormai in fermento: cadute le barriere si espandeva l’imprenditoria, nascevano nuove imprese. Ne citeremo solo tre, ben note: la carrozzeria Orlandi di Modena, la casa editrice Zanichelli di Bologna e il birrificio Moretti di Udine. La prima dovuta alla solerzia di un falegname che costruiva carri e carrozze a Crespellano, che passò agli omnibus trainati da cavalli e quindi arrivò a lavorare il metallo col quale creò a fine secolo il primo autobus italiano fornito di un motore Bolide da 20 Cv col quale vinse il primo premio alla Fiera di Milano dell’anno dopo. L’editrice libraria fu opera del librario modenese Nicola Zanichelli che aveva il pallino della diffusione della cultura scientifica: fu lui il primo editore in Italia del saggio di Darwin e del saggio sulla relatività di Einstein. Nello stesso anno ad Udine (ancora sotto governo austriaco) fu avviata la distilleria Moretti, quella del “baffo”, che poté espandersi dopo avvenuta l’Unità. È necessario anche nn accenno ai progressi della scienza in quel ribollente 1859: l’inglese Richard Carrington, grande studioso dei fenomeni del sole, ne scoprì alcuni capricci fino allora mai osservati: l’accelerazione equatoriale della fotosfera, lo spostamento delle macchie in senso latitudinale, l’inclinazione dell’equatore solare rispetto all’eclittica, la rotazione del sole a varie latitudini. Al matematico tedesco Barnhard Rieman (che visse molti anni in Italia) dobbiamo invece la pubblicazione di un particolare teorema sulla geometria delle curve che (immaginiamo) può trovare applicazione pratica in molti settori ingegneristici che si devono occupare, nelle costruzioni di ogni genere, di ogni tipo di curva.
Note
Giovanni Spadolini, Gli uomini che fecero l’Italia, l’Ottocento, Longanesi 1972
Marco Scardigli, Guerre di indipendenze in Italia, Rcs Media Group 2016
Pasquale Villari, Il Risorgimento, Vallardi Editore 1881
Per Marx: Paolo E. Taviani in Dizionario delle opere, Bompiani 2006