Sindacale
14 punti di riflessione per un modello di scuola che guardi ad un nuovo umanesimo
di Pino Turi pagina 16
Pubblichiamo in queste pagine un breve cimelio Uil: la relazione al primo convegno di un sindacato in tema di ambiente. Già, l’ambiente: inquinamento, rifiuti, riciclo, clima, sopravvivenza eccetera eccetera. Se le tante parole buttate al vento su questo terribile problema si traducessero in realtà il mondo sarebbe già salvo. Invece i governi di tutto il mondo annaspano, non riescono a trovare un accordo decente. Intanto osserviamo che già dal 1986 la Uil il problema se l’era posto e aveva avanzato proposte pratiche e fattibili. Voleva essere il sindacato dei cittadini che si avvelenano in fabbrica e non trovavano certo un ambiente migliore appena ne uscivano. Nell’86 (era il tempo di Chernobyl) Giorgio Benvenuto incaricò un membro della Segreteria Confederale di allora – Giuseppe Piccinini – di cominciare a delineare il problema. Il Segretario riunì i suoi collaboratori e li mise al lavoro. Il risultato – analisi della situazione e proposte di soluzione – furono poi illustrate da Andrea Costi ad una Conferenza nazionale che si tenne a Roma nei giorni 14 e 15 maggio. Nessun altro sindacato s’era mai interessato prima alle questioni ambientali ma subito dopo anche le altre organizzazioni si dettero da fare: due mesi dopo la Cgil decise di impegnarsi sul tema affidandolo alla mitica Donatella Turtura. Dopo altri tre mesi si mosse anche la Cisl: il suo primo segretario-ambiente fu l’amico Emilio Gabaglio. Cominciò così l’impegno dei sindacati italiani in Italia e in Europa. – da quel momento sempre in modo unitario – per il problema complesso e affascinante del risanamento dell’ambiente e del futuro del pianeta in cui viviamo e lavoriamo.
CONFERENZA NAZIONALE UIL UOMINI-AMBIENTE - Roma , 14/15 maggio 1986
Sistema di controlli ambientali ed alimentari. Diritti di informazione. Agenzia e statuto dei diritti dei lavoratori e dei consumatori in materia di tutela ambientale e prevenzione. Analisi e proposte – Relazione di Andrea Costi Oggi il primo vero problema per quanto riguarda la difesa dagli inquinamenti e dalle frodi alimentari è quello relativo all’ assoluta carenza di strutture tecniche di controllo sul territorio, dopo la scomparsa dei Laboratori provinciali di igiene e profilassi senza che il loro ruolo (salvo rare eccezioni) sia stato ricoperto dai presidi multizonali di prevenzione, così come voluto dalla legge di riforma sanitaria. Ed è evidente che, in assenza di controlli e di dati conoscitivi, qualsiasi azione e qualsiasi legge sono destinate a restare operanti solo sulla carta. Inoltre, tanto è grave la situazione, quanto è urgente intervenire, almeno con provvedimenti - tampone, in attesa di una più vasta ed organica ristrutturazione di tutta la materia dei controlli, al fine di assicurare un minimo di efficienza immediata. La quale non è certamente data dal fiorire di iniziative locali che vedono sorgere nuove e atipiche strutture di controllo, né dalla stipula di convenzioni con enti ed istituti privati: unici risultati sono la frammentarietà, una diversa efficienza, commistioni di interessi e duplicazioni di interventi. Quale strada è, dunque, proponibile? C’è chi la individua nella costituzione di nuovi laboratori che svincolino la materia dai controlli più propriamente sanitari: enti specializzati che si dovrebbero occupare di fare prelievi ed analisi in un ambito territoriale abbastanza ampio (la provincia). C’è chi la individua nell’ accurata ripartizione di competenze tra lo Stato e le singole regioni. I fautori della prima strada ritengono la provincia la dimensione territoriale ottimale sulla base sia della esperienza pregressa, sia dell’opportunità, ai fini di una realizzazione certa e spedita, di non cambiare troppo e di usare l’esistente, sia della valutazione generalmente negativa dell’attuale realtà programmatoria ed organizzativa delle regioni. Il che non significa che i nuovi laboratori debbano sorgere al di fuori di un preciso piano delle singole regioni, né che debbano operare al di fuori di direttive generali impartite dalla regione stessa; anche perché questa programmazione regionale consentirebbe di programmare i nuovi laboratori in funzione del contenuto e degli obiettivi dei piani regionali (per le acque, per i rifiuti, ecc.). I fautori della seconda strada ritengono che la necessità di affrontare i problemi ambientali con un’ottica non settoriale e non circoscritta sconsigli di frantumare su scala provinciale gli interventi e le responsabilità, dal momento che in talune circostanze sarebbe addirittura indispensabile giungere a forme di coordinamento tra più regioni, come nel caso della lotta all’inquinamento in alcuni “bacini di crisi” (Val Padana, Adriatico) che presuppongono un’ottica sovra-regionale. In altri termini, un’attribuzione delle competenze di controllo sull’ambiente alle provincie ne determinerebbe un’eccessiva ripartizione, con conseguenti flussi informativi convulsi, discontinui, soggetti spesso a “sclerosi” (per duplicazioni e filtri troppo numerosi). Stando alle più recente ipotesi formulate in ambiti diversi, compreso quello del Ministero per l’Ecologia, è possibile cercare di delineare uno schema di rapporti e flussi informativi assai suggestivo, secondo il quale allo Stato (cioè Parlamento e Ministeri competenti ) spetterebbe il compito di elaborare norme quadro, norme tecniche e standard, grandi progetti ed interventi, nonché le linee di attribuzione dei fondi alle regioni, in un rapporto diretto con le singole giunte ed assemblee regionali, ai sensi del dettato costituzionale (art. 117) e di varie norme attuative sulle competenze. Le quali regioni, procedendo a norme esecutive, fissando la ripartizione dei fondi in base a priorità e finalità di intervento, impostando il controllo sull’utilizzazione delle risorse, potrebbero avvalersi di una apposita struttura destinata alla salvaguardia ambientale (agenzia regionale per l’ambiente), quale strumento di omogeneizzazione delle misure stabilite in base ai fondi stanziati, di consulenza tecnica ed operativa, di supervisione e di cura di tutte le procedure di valutazione di impatto ambientale. Nel quadro dello stretto rapporto che è possibile evidenziare tra politica ambientale e rilancio occupazionale, tale agenzia potrebbe, inoltre, giungere ad un proficuo e diretto interscambio informativo/ operativo ed “alla pari” con le strutture destinate all’avvio al lavoro, eventualmente esistenti a livello regionale: quelle “agenzie per il lavoro” destinate alla identificazione delle risorse umane, alla formazione e qualificazione/riqualificazione professionale, alla consulenza giuridico/legale, ecc., che rappresentano una tappa significativa dell’impegno del sindacato, ed in particolare della Uil, in tema di mercato e di politica attiva del lavoro. Frutto dell’azione sinergica di queste due agenzie regionali risulterebbero interessanti e costruttive iniziative di job creation nel settore ambientale, finalizzati ad interventi sul territorio, i cui dati informativi, secondo i fautori della prima strada, affluirebbero in appositi “uffici provinciali” dotati di personale qualificato, mezzi tecnici e risorse finanziarie. Tali uffici sarebbero deputati a controllare lo stato dell’ambiente e le aziende operanti nel settore e a verificare i risultati delle iniziative su scala locale, fatti salvi specifici settori di controllo a seconda delle esigenze territoriali (e conseguente, idonea, attrezzatura) di ciascuna provincia, rilanciando informazioni e suggerimenti, sulla base delle concrete esperienze compiute, tanto verso la regione (o meglio, secondo l’ipotesi ora fatta, verso l’agenzia regionale per l’ambiente), quanto, direttamente, verso il Parlamento e i Ministeri competenti. Per i fautori della seconda strada, è all’Agenzia regionale stessa che spetterebbe il compito dell’ esecuzione concreta degli interventi e delle misure di salvaguardia ambientale, garantendo la non sovrapposizione tra organi esecutivi (l’agenzia) e organi di controllo (la regione), all’interno di un ipotesi “ampia” di forme di collaborazione tra Stato e Regioni, sul modello di quanto avviene ad esempio nella Rft con i così detti “progetti di interesse comune”, vale a dire iniziative condotte con i fondi dello Stato, ma con uno spiccato controllo di merito e tecnico da parte di quest’ultimo sul loro operato. Comunque, ben al di là di talune differenze orientative in ambito di ipotesi di risoluzione, a fronte della relativa, sostanziale e unanimemente riconosciuta inadeguatezza delle Usl, quello dei controlli ambientali resta il nodo da sciogliere prioritario e fondamentale, anche ai fini dell’avvio di una nuova ed efficace normativa di prevenzione e di reale applicazione di quella esistente, e su di esso è ipotizzabile che sia chiamato a misurarsi quel ruolo di protagonismo nello sviluppo civile delle parti sociali che, nello specifico del sindacato, deve significare espressione piena di ogni sua potenzialità contrattuale, di vigilanza e di denuncia, nonché capacità di presenza “istituzionale” e propositiva a livello deliberativo/programmatorio sia nazionale che territoriale. Va senza dubbio in questa direzione la definizione congressuale della Uil per un sindacato dei lavoratori/cittadini, cioè di un sindacato che sappia tutelare il lavoratore sul proprio posto di lavoro e quello stesso lavoratore, in quanto cittadino, alle prese quotidiane con una serie di problemi che direttamente lo coinvolgono. Tra questi, in primo piano, lo stato di salute dell’attuale sistema sanitario, l’efficienza della Pubblica Amministrazione, il grado di tutela e di complessiva fruibilità dell’ambiente di vita. Si tratta di un ruolo “nuovo” per il sindacato italiano e come tale, in relazione ai temi ambientali, può essere rapportato a tre specifiche aree di intervento.
La prima si colloca sul versante istituzionale-legislativo, dove il sindacato: a) può agire ai fini di accelerare l’approvazione di provvedimenti in grado di affrontare il problema delle competenze e delle strutture in materia di controlli ambientali e alimentari, e di permettere la completa disponibilità di ogni dato relativo allo stato dell’ambiente e dei consumi; può aprire vere e proprie vertenze nei confronti di quei soggetti istituzionali (Ministeri, Regioni, ecc.) che non abbiano espletato le funzioni di loro competenze circa gli atti previsti dalle normative esistenti (basti pensare all’applicazione, oggi, del D.P.R. 915/82); c) può pubblicizzare al massimo, fra i lavoratori-cittadini, idee-forza, quale quella circa il ripristino dell’art. 16 nella legge istitutiva del Ministero per l’Ambiente sul reato di danno pubblico ambientale, oppure la necessità, nella legge Merli, di coniugare opportunamente la fine del periodico ricorso all’istituto della proroga con modifiche normative che, pur non stravolgendo la legge, non determinino insostenibili ed inaccettabili situazioni di rischio occupazionale, e così via. Un intervento legislativo potrebbe essere richiesto dal sindacato quale momento di specifica tutela del cittadino-consumatore, anche se uno strumento rigido e “immobile” risulterebbe, probabilmente, inadeguato rispetto ad una materia così ampia, da molti punti di vista “nuova” ed in continua evoluzione, come dimostrano i fatti recentemente accaduti; altra cosa sarebbe invece, ipotizzare un intervento legislativo per la tutela del lavoratore-cittadino che decidesse di sporgere denuncia in materia, dal momento che molto spesso il lavoratore si trova a dover scegliere, del tutto solo e senza nessuna tutela giuridica certa, tra il compiere il proprio dovere di cittadino con la certezza di essere licenziato in tronco o addirittura di essere fatto oggetto di minacce e ritorsioni (vedi quello che è successo a Manduria, dove tutto il paese che era al corrente delle sofisticazioni del vino era tenuto sotto scacco dalla malavita ), e l’accettazione per quieto vivere e per continuare magari a mantenere la famiglia, del ricatto del silenzio. Nota di particolare attenzione, in campo legislativo, da parte del sindacato, merita ovviamente lo Statuto dei lavoratori (legge 300/70) in quanto l’art. 9, pur riguardando in modo esplicito l’aspetto della tutela della salute in riferimento ad infortuni e malattie professionali, presta tuttavia il fianco a possibili interpretazioni estensive o a vere e proprie modifiche, stante il concetto di “salute e integrità fisica” espresso in tale articolo, nonché quanto sostenuto dalla giurisprudenza circa la possibilità per le rappresentanze dei lavoratori di avvalersi di così detti “esperti esterni”. Ma come sindacato, ed in particolare come organizzazione per prima e più di ogni altra impegnata su questo tema, corre l’obbligo di chiedersi che non sia più utile ed opportuno, anziché pretendere oggi l’immediata modifica dell’art. 9, puntare con maggiore decisione ad un discorso generale di urgente e complessiva revisione dello Statuto, del quale molte parti risultano ormai obsolete, e all’interno del quale troverebbero spazio adeguato le stesse ipotesi sul riconoscimento del rapporto fra tutela della salute del lavoratore-cittadino e tutela ambientale. Altro terreno di intervento sindaca potrebbe essere quello del confronto istituzionale, ricercando i consensi delle forze politiche e del governo su una ipotesi di “Statuto dei Diritti dei Lavoratori e consumatori sui temi della salute e dell’ambiente”, che sulla falsa riga della legge 300 estenda la tutela legislativa e di sostegno al lavoratore, anche al di fuori del posto di lavoro. Una iniziativa del genere, tra l’altro, è già stata prevista nella piattaforma per il rinnovo contrattuale degli Enti Locali, dove, uscendo dai soliti schemi, i sindacati di categoria di Cgil-Cisl-Uil avanzano la proposta di istituire presso i Comuni, le Provincie e le Regioni, dei veri e propri “uffici informazioni e reclamo” a disposizione dei cittadini, e la richiesta al governo di definire uno “Statuto dei Diritti degli Utenti”, con l’obiettivo dichiarato di migliorare la funzionalità dei servizi e assicurare la partecipazione e il controllo dei cittadini. E a seconda area di intervento si colloca, appunto, sul versante contrattuale e significa la previsione nei Ccnl di istituti e parti specifiche in grado di mettere il sindacato ed il singolo lavoratore nelle condizione di conoscere preventivamente ed in maniera particolareggiata ogni aspetto attinente la salvaguardia ambientale e la salute dei cittadini, estendendo innanzitutto i diritti di informazione a materie fino ad oggi sostanzialmente trascurate, quali, ad esempio, natura, destinazione e modo di smaltimento dei rifiuti industriali, applicazione di procedure per la valutazione di impatto ambientale, natura e composizione dei prodotti dell’industria alimentare ed agro-alimentare, ecc. In proposito, va tenuto conto che già alcuni Ccnl prevedono norme non utilizzate e che potrebbero, invece, risultare molto utili anche perché affidano questo ruolo di tutela al sindacato territoriale e non al singolo lavoratore, evitando così il rischio di quelle “ritorsioni” che hanno spesso accompagnato e caratterizzato le denunce dei singoli (tra l’altro, trovando conferme anche da parte della magistratura), come è stato per una recente sentenza della Cassazione che ha dichiarato legittimo il licenziamento di alcuni lavoratori che, avendo denunciato disfunzioni nella gestione della propria azienda, sono stati ritenuti colpevoli di diffamazione. Due piste sono dunque percorribili: la prima riguarda i diritti di informazione, nel Ccnl, per la quale si può ipotizzare, stanti situazioni contrattuali già ben definite in materia (ad esempio contratto metalmeccanici, art. 27, parte terza), la parziale revisione per semplice “adattamento”, e il trasferimento e la successiva estensione/omogeneizzazione ad altri contratti di norme oggi presenti nel contesto della disciplina comune del rapporto individuale di lavoro al contesto, particolarmente significativo, della prima parte, cioè del rapporto sindacale inteso come sistema di informazioni: ciò permetterebbe di affiancare al flusso sul controllo delle tecnologie, sulle scelte di riorganizzazione produttiva, su mobilità e flessibilità, anche quelli riguardanti tutto ciò che può danneggiare salute ed ambiente, ponendosi così come momento importante non solo di verifica, ma soprattutto di prevenzione .c:a seconda pista attiene all’utilizzo immediato ed efficace per gli interessi dei lavoratori-cittadini di tali informazioni. Una ipotesi può essere, dunque, quella di inventare, a livello territoriale e/o regionale, una sorta “contenitore intelligente” cioè una agenzia per la tutela dei diritti dei lavoratori e consumatori sui problemi dell’ambiente, che immagazzini informazioni e dati raccolti dai singoli lavoratori e strutture sindacali, assumendosi direttamente la responsabilità della loro gestione, che proceda al vaglio di tali dati, alla loro denuncia all’opinione pubblica e, nei casi più gravi, alla Magistratura e alle forze politiche, elaborando anche proposte di merito. Infine, la terza area di intervento, si colloca sul versante propriamente sociale dell’azione del sindacato, prefigurando l’instaurazione di un tipo di rapporto costruttivo con le associazioni ambientaliste maggiormente rappresentative e di sicuro impegno sociale e civile. Ciò significa operare, da un lato, per la formalizzazione di tale rapporto (ipotesi: costituzione di un comune organismo di consultazione preventiva sui temi ambientali connessi a mercato del lavoro e sviluppo occupazionale), e, dall’altro, per la progettazione ed attuazione di iniziative quali: collaborazione dei cittadini per un censimento per le discariche abusive esistenti sul territorio nazionale; costituzione di una associazione nazionale per il riciclo e il recupero dei rifiuti; stimoli e contributi per l’istituzione di un progetto finalizzato sulle tecnologie pulite e per l’incentivazione, sia in campo industriale che agricolo, di sistemi produttivi idonei dal punto di vista ambientale.
Pubblichiamo in queste pagine un breve cimelio Uil: la relazione al primo convegno di un sindacato in tema di ambiente. Già, l’ambiente: inquinamento, rifiuti, riciclo, clima, sopravvivenza eccetera eccetera. Se le tante parole buttate al vento su questo terribile problema si traducessero in realtà il mondo sarebbe già salvo. Invece i governi di tutto il mondo annaspano, non riescono a trovare un accordo decente. Intanto osserviamo che già dal 1986 la Uil il problema se l’era posto e aveva avanzato proposte pratiche e fattibili. Voleva essere il sindacato dei cittadini che si avvelenano in fabbrica e non trovavano certo un ambiente migliore appena ne uscivano. Nell’86 (era il tempo di Chernobyl) Giorgio Benvenuto incaricò un membro della Segreteria Confederale di allora – Giuseppe Piccinini – di cominciare a delineare il problema. Il Segretario riunì i suoi collaboratori e li mise al lavoro. Il risultato – analisi della situazione e proposte di soluzione – furono poi illustrate da Andrea Costi ad una Conferenza nazionale che si tenne a Roma nei giorni 14 e 15 maggio. Nessun altro sindacato s’era mai interessato prima alle questioni ambientali ma subito dopo anche le altre organizzazioni si dettero da fare: due mesi dopo la Cgil decise di impegnarsi sul tema affidandolo alla mitica Donatella Turtura. Dopo altri tre mesi si mosse anche la Cisl: il suo primo segretario-ambiente fu l’amico Emilio Gabaglio. Cominciò così l’impegno dei sindacati italiani in Italia e in Europa. – da quel momento sempre in modo unitario – per il problema complesso e affascinante del risanamento dell’ambiente e del futuro del pianeta in cui viviamo e lavoriamo.
CONFERENZA NAZIONALE UIL UOMINI-AMBIENTE - Roma , 1415 maggio 1986
Sistema di controlli ambientali ed alimentari. Diritti di informazione. Agenzia e statuto dei diritti dei lavoratori e dei consumatori in materia di tutela ambientale e prevenzione. Analisi e proposte – Relazione di Andrea Costi Oggi il primo vero problema per quanto riguarda la difesa dagli inquinamenti e dalle frodi alimentari è quello relativo all’ assoluta carenza di strutture tecniche di controllo sul territorio, dopo la scomparsa dei Laboratori provinciali di igiene e profilassi senza che il loro ruolo (salvo rare eccezioni) sia stato ricoperto dai presidi multizonali di prevenzione, così come voluto dalla legge di riforma sanitaria. Ed è evidente che, in assenza di controlli e di dati conoscitivi, qualsiasi azione e qualsiasi legge sono destinate a restare operanti solo sulla carta. Inoltre, tanto è grave la situazione, quanto è urgente intervenire, almeno con provvedimenti - tampone, in attesa di una più vasta ed organica ristrutturazione di tutta la materia dei controlli, al fine di assicurare un minimo di efficienza immediata. La quale non è certamente data dal fiorire di iniziative locali che vedono sorgere nuove e atipiche strutture di controllo, né dalla stipula di convenzioni con enti ed istituti privati: unici risultati sono la frammentarietà, una diversa efficienza, commistioni di interessi e duplicazioni di interventi. Quale strada è, dunque, proponibile? C’è chi la individua nella costituzione di nuovi laboratori che svincolino la materia dai controlli più propriamente sanitari: enti specializzati che si dovrebbero occupare di fare prelievi ed analisi in un ambito territoriale abbastanza ampio (la provincia). C’è chi la individua nell’ accurata ripartizione di competenze tra lo Stato e le singole regioni. I fautori della prima strada ritengono la provincia la dimensione territoriale ottimale sulla base sia della esperienza pregressa, sia dell’opportunità, ai fini di una realizzazione certa e spedita, di non cambiare troppo e di usare l’esistente, sia della valutazione generalmente negativa dell’attuale realtà programmatoria ed organizzativa delle regioni. Il che non significa che i nuovi laboratori debbano sorgere al di fuori di un preciso piano delle singole regioni, né che debbano operare al di fuori di direttive generali impartite dalla regione stessa; anche perché questa programmazione regionale consentirebbe di programmare i nuovi laboratori in funzione del contenuto e degli obiettivi dei piani regionali (per le acque, per i rifiuti, ecc.). I fautori della seconda strada ritengono che la necessità di affrontare i problemi ambientali con un’ottica non settoriale e non circoscritta sconsigli di frantumare su scala provinciale gli interventi e le responsabilità, dal momento che in talune circostanze sarebbe addirittura indispensabile giungere a forme di coordinamento tra più regioni, come nel caso della lotta all’inquinamento in alcuni “bacini di crisi” (Val Padana, Adriatico) che presuppongono un’ottica sovra-regionale. In altri termini, un’attribuzione delle competenze di controllo sull’ambiente alle provincie ne determinerebbe un’eccessiva ripartizione, con conseguenti flussi informativi convulsi, discontinui, soggetti spesso a “sclerosi” (per duplicazioni e filtri troppo numerosi). Stando alle più recente ipotesi formulate in ambiti diversi, compreso quello del Ministero per l’Ecologia, è possibile cercare di delineare uno schema di rapporti e flussi informativi assai suggestivo, secondo il quale allo Stato (cioè Parlamento e Ministeri competenti ) spetterebbe il compito di elaborare norme quadro, norme tecniche e standard, grandi progetti ed interventi, nonché le linee di attribuzione dei fondi alle regioni, in un rapporto diretto con le singole giunte ed assemblee regionali, ai sensi del dettato costituzionale (art. 117) e di varie norme attuative sulle competenze. Le quali regioni, procedendo a norme esecutive, fissando la ripartizione dei fondi in base a priorità e finalità di intervento, impostando il controllo sull’utilizzazione delle risorse, potrebbero avvalersi di una apposita struttura destinata alla salvaguardia ambientale (agenzia regionale per l’ambiente), quale strumento di omogeneizzazione delle misure stabilite in base ai fondi stanziati, di consulenza tecnica ed operativa, di supervisione e di cura di tutte le procedure di valutazione di impatto ambientale. Nel quadro dello stretto rapporto che è possibile evidenziare tra politica ambientale e rilancio occupazionale, tale agenzia potrebbe, inoltre, giungere ad un proficuo e diretto interscambio informativo/ operativo ed “alla pari” con le strutture destinate all’avvio al lavoro, eventualmente esistenti a livello regionale: quelle “agenzie per il lavoro” destinate alla identificazione delle risorse umane, alla formazione e qualificazione/riqualificazione professionale, alla consulenza giuridico/legale, ecc., che rappresentano una tappa significativa dell’impegno del sindacato, ed in particolare della Uil, in tema di mercato e di politica attiva del lavoro. Frutto dell’azione sinergica di queste due agenzie regionali risulterebbero interessanti e costruttive iniziative di job creation nel settore ambientale, finalizzati ad interventi sul territorio, i cui dati informativi, secondo i fautori della prima strada, affluirebbero in appositi “uffici provinciali” dotati di personale qualificato, mezzi tecnici e risorse finanziarie. Tali uffici sarebbero deputati a controllare lo stato dell’ambiente e le aziende operanti nel settore e a verificare i risultati delle iniziative su scala locale, fatti salvi specifici settori di controllo a seconda delle esigenze territoriali (e conseguente, idonea, attrezzatura) di ciascuna provincia, rilanciando informazioni e suggerimenti, sulla base delle concrete esperienze compiute, tanto verso la regione (o meglio, secondo l’ipotesi ora fatta, verso l’agenzia regionale per l’ambiente), quanto, direttamente, verso il Parlamento e i Ministeri competenti. Per i fautori della seconda strada, è all’Agenzia regionale stessa che spetterebbe il compito dell’ esecuzione concreta degli interventi e delle misure di salvaguardia ambientale, garantendo la non sovrapposizione tra organi esecutivi (l’agenzia) e organi di controllo (la regione), all’interno di un ipotesi “ampia” di forme di collaborazione tra Stato e Regioni, sul modello di quanto avviene ad esempio nella Rft con i così detti “progetti di interesse comune”, vale a dire iniziative condotte con i fondi dello Stato, ma con uno spiccato controllo di merito e tecnico da parte di quest’ultimo sul loro operato. Comunque, ben al di là di talune differenze orientative in ambito di ipotesi di risoluzione, a fronte della relativa, sostanziale e unanimemente riconosciuta inadeguatezza delle Usl, quello dei controlli ambientali resta il nodo da sciogliere prioritario e fondamentale, anche ai fini dell’avvio di una nuova ed efficace normativa di prevenzione e di reale applicazione di quella esistente, e su di esso è ipotizzabile che sia chiamato a misurarsi quel ruolo di protagonismo nello sviluppo civile delle parti sociali che, nello specifico del sindacato, deve significare espressione piena di ogni sua potenzialità contrattuale, di vigilanza e di denuncia, nonché capacità di presenza “istituzionale” e propositiva a livello deliberativo/programmatorio sia nazionale che territoriale. Va senza dubbio in questa direzione la definizione congressuale della Uil per un sindacato dei lavoratori/cittadini, cioè di un sindacato che sappia tutelare il lavoratore sul proprio posto di lavoro e quello stesso lavoratore, in quanto cittadino, alle prese quotidiane con una serie di problemi che direttamente lo coinvolgono. Tra questi, in primo piano, lo stato di salute dell’attuale sistema sanitario, l’efficienza della Pubblica Amministrazione, il grado di tutela e di complessiva fruibilità dell’ambiente di vita. Si tratta di un ruolo “nuovo” per il sindacato italiano e come tale, in relazione ai temi ambientali, può essere rapportato a tre specifiche aree di intervento.
La prima si colloca sul versante istituzionale-legislativo, dove il sindacato: a) può agire ai fini di accelerare l’approvazione di provvedimenti in grado di affrontare il problema delle competenze e delle strutture in materia di controlli ambientali e alimentari, e di permettere la completa disponibilità di ogni dato relativo allo stato dell’ambiente e dei consumi; può aprire vere e proprie vertenze nei confronti di quei soggetti istituzionali (Ministeri, Regioni, ecc.) che non abbiano espletato le funzioni di loro competenze circa gli atti previsti dalle normative esistenti (basti pensare all’applicazione, oggi, del D.P.R. 915/82); c) può pubblicizzare al massimo, fra i lavoratori-cittadini, idee-forza, quale quella circa il ripristino dell’art. 16 nella legge istitutiva del Ministero per l’Ambiente sul reato di danno pubblico ambientale, oppure la necessità, nella legge Merli, di coniugare opportunamente la fine del periodico ricorso all’istituto della proroga con modifiche normative che, pur non stravolgendo la legge, non determinino insostenibili ed inaccettabili situazioni di rischio occupazionale, e così via. Un intervento legislativo potrebbe essere richiesto dal sindacato quale momento di specifica tutela del cittadino-consumatore, anche se uno strumento rigido e “immobile” risulterebbe, probabilmente, inadeguato rispetto ad una materia così ampia, da molti punti di vista “nuova” ed in continua evoluzione, come dimostrano i fatti recentemente accaduti; altra cosa sarebbe invece, ipotizzare un intervento legislativo per la tutela del lavoratore-cittadino che decidesse di sporgere denuncia in materia, dal momento che molto spesso il lavoratore si trova a dover scegliere, del tutto solo e senza nessuna tutela giuridica certa, tra il compiere il proprio dovere di cittadino con la certezza di essere licenziato in tronco o addirittura di essere fatto oggetto di minacce e ritorsioni (vedi quello che è successo a Manduria, dove tutto il paese che era al corrente delle sofisticazioni del vino era tenuto sotto scacco dalla malavita ), e l’accettazione per quieto vivere e per continuare magari a mantenere la famiglia, del ricatto del silenzio. Nota di particolare attenzione, in campo legislativo, da parte del sindacato, merita ovviamente lo Statuto dei lavoratori (legge 300/70) in quanto l’art. 9, pur riguardando in modo esplicito l’aspetto della tutela della salute in riferimento ad infortuni e malattie professionali, presta tuttavia il fianco a possibili interpretazioni estensive o a vere e proprie modifiche, stante il concetto di “salute e integrità fisica” espresso in tale articolo, nonché quanto sostenuto dalla giurisprudenza circa la possibilità per le rappresentanze dei lavoratori di avvalersi di così detti “esperti esterni”. Ma come sindacato, ed in particolare come organizzazione per prima e più di ogni altra impegnata su questo tema, corre l’obbligo di chiedersi che non sia più utile ed opportuno, anziché pretendere oggi l’immediata modifica dell’art. 9, puntare con maggiore decisione ad un discorso generale di urgente e complessiva revisione dello Statuto, del quale molte parti risultano ormai obsolete, e all’interno del quale troverebbero spazio adeguato le stesse ipotesi sul riconoscimento del rapporto fra tutela della salute del lavoratore-cittadino e tutela ambientale. Altro terreno di intervento sindaca potrebbe essere quello del confronto istituzionale, ricercando i consensi delle forze politiche e del governo su una ipotesi di “Statuto dei Diritti dei Lavoratori e consumatori sui temi della salute e dell’ambiente”, che sulla falsa riga della legge 300 estenda la tutela legislativa e di sostegno al lavoratore, anche al di fuori del posto di lavoro. Una iniziativa del genere, tra l’altro, è già stata prevista nella piattaforma per il rinnovo contrattuale degli Enti Locali, dove, uscendo dai soliti schemi, i sindacati di categoria di Cgil-Cisl-Uil avanzano la proposta di istituire presso i Comuni, le Provincie e le Regioni, dei veri e propri “uffici informazioni e reclamo” a disposizione dei cittadini, e la richiesta al governo di definire uno “Statuto dei Diritti degli Utenti”, con l’obiettivo dichiarato di migliorare la funzionalità dei servizi e assicurare la partecipazione e il controllo dei cittadini. E a seconda area di intervento si colloca, appunto, sul versante contrattuale e significa la previsione nei Ccnl di istituti e parti specifiche in grado di mettere il sindacato ed il singolo lavoratore nelle condizione di conoscere preventivamente ed in maniera particolareggiata ogni aspetto attinente la salvaguardia ambientale e la salute dei cittadini, estendendo innanzitutto i diritti di informazione a materie fino ad oggi sostanzialmente trascurate, quali, ad esempio, natura, destinazione e modo di smaltimento dei rifiuti industriali, applicazione di procedure per la valutazione di impatto ambientale, natura e composizione dei prodotti dell’industria alimentare ed agro-alimentare, ecc. In proposito, va tenuto conto che già alcuni Ccnl prevedono norme non utilizzate e che potrebbero, invece, risultare molto utili anche perché affidano questo ruolo di tutela al sindacato territoriale e non al singolo lavoratore, evitando così il rischio di quelle “ritorsioni” che hanno spesso accompagnato e caratterizzato le denunce dei singoli (tra l’altro, trovando conferme anche da parte della magistratura), come è stato per una recente sentenza della Cassazione che ha dichiarato legittimo il licenziamento di alcuni lavoratori che, avendo denunciato disfunzioni nella gestione della propria azienda, sono stati ritenuti colpevoli di diffamazione. Due piste sono dunque percorribili: la prima riguarda i diritti di informazione, nel Ccnl, per la quale si può ipotizzare, stanti situazioni contrattuali già ben definite in materia (ad esempio contratto metalmeccanici, art. 27, parte terza), la parziale revisione per semplice “adattamento”, e il trasferimento e la successiva estensione/omogeneizzazione ad altri contratti di norme oggi presenti nel contesto della disciplina comune del rapporto individuale di lavoro al contesto, particolarmente significativo, della prima parte, cioè del rapporto sindacale inteso come sistema di informazioni: ciò permetterebbe di affiancare al flusso sul controllo delle tecnologie, sulle scelte di riorganizzazione produttiva, su mobilità e flessibilità, anche quelli riguardanti tutto ciò che può danneggiare salute ed ambiente, ponendosi così come momento importante non solo di verifica, ma soprattutto di prevenzione .c:a seconda pista attiene all’utilizzo immediato ed efficace per gli interessi dei lavoratori-cittadini di tali informazioni. Una ipotesi può essere, dunque, quella di inventare, a livello territoriale e/o regionale, una sorta “contenitore intelligente” cioè una agenzia per la tutela dei diritti dei lavoratori e consumatori sui problemi dell’ambiente, che immagazzini informazioni e dati raccolti dai singoli lavoratori e strutture sindacali, assumendosi direttamente la responsabilità della loro gestione, che proceda al vaglio di tali dati, alla loro denuncia all’opinione pubblica e, nei casi più gravi, alla Magistratura e alle forze politiche, elaborando anche proposte di merito. Infine, la terza area di intervento, si colloca sul versante propriamente sociale dell’azione del sindacato, prefigurando l’instaurazione di un tipo di rapporto costruttivo con le associazioni ambientaliste maggiormente rappresentative e di sicuro impegno sociale e civile. Ciò significa operare, da un lato, per la formalizzazione di tale rapporto (ipotesi: costituzione di un comune organismo di consultazione preventiva sui temi ambientali connessi a mercato del lavoro e sviluppo occupazionale), e, dall’altro, per la progettazione ed attuazione di iniziative quali: collaborazione dei cittadini per un censimento per le discariche abusive esistenti sul territorio nazionale; costituzione di una associazione nazionale per il riciclo e il recupero dei rifiuti; stimoli e contributi per l’istituzione di un progetto finalizzato sulle tecnologie pulite e per l’incentivazione, sia in campo industriale che agricolo, di sistemi produttivi idonei dal punto di vista ambientale.