Il fatto
Europa: come la vogliamo
di Antonio Foccillo pagina 1
Teniamoci liberi il 25
Nel mese di maggio due avvenimenti ripropongono la centralità dell’Unione Europea: le elezioni per il Parlamento Europeo ed il congresso della Confederazione Europea dei Sindacati.
Nel lungo cammino della Unione Economica e Monetaria si è determinato un grande “mercato unico” nel quale, però, la grande finanza ha imposto scelte in termini egoistici ribaltando i concetti del welfare e della solidarietà che erano i valori fondanti del modello europeo. Non è stata, invece, altrettanto soddisfatta, in questo grande mercato, la componente del lavoro, perché la politica dell’austerity ha prodotto tanta disoccupazione e tanto lavoro precario. E dello “spazio sociale” che avrebbe dovuto essere il completamento dell’umanizzazione del mercato comune, se n’è parlato tanto ma poco si è fatto.
Non mettiamo in dubbio naturalmente il mercato ma crediamo che se ne possa avere fiducia senza tuttavia mitizzarne il ruolo e senza dimenticare che il modello ideale di mercato, tratteggiato da Adam Smith, deve fare i conti con le distorsioni della diffusa presenza oligopolistica e anche con le varianti delle varie forme di intervento pubblico. Crediamo che, piuttosto che far professione di fede dello spontaneismo del mercato che tanti hanno sponsorizzato, sia opportuno mettere in moto processi concreti di “costruzione” di uno “spazio sociale” ancora privo di una giusta dimensione. Infatti, una delle maggiori preoccupazioni è costituita proprio dalla poca visibilità della politica sociale a livello europeo. Mentre l’80% della legislazione economica, finanziaria è di origine comunitaria, la normativa riguardante le politiche sociali e del lavoro è ancora di competenza degli Stati membri. Il riferimento costante che il sindacato fa agli aspetti sociali non deriva da un’ossessione di inserire il “sociale” ovunque ma vuole ricordare che i rischi di squilibrio sono tali che, senza una normativa sociale comunitaria, si produrrebbero nella società europea gravi tensioni suscettibili di mettere in discussione proprio il processo di integrazione europea, come sta avvenendo negli ultimi tempi. L’Unione europea deve confrontarsi con una situazione sociale ed economica complessa ed eterogenea, dovuta in gran parte alla mancanza di sviluppo dovuto ai lunghi anni di politiche economiche di stampo neo liberista.
In questi anni chi ha sofferto di più sono i senza lavoro e chi lo ha perso. La disoccupazione che costituisce la dissipazione del nostro bene più prezioso, colpisce in maniera diseguale accentuando le disparità territoriali, quelle fra uomo e donna e fra generazioni. Si è allargata in maniera allarmante l’area della nuova povertà. Per uscire da questa situazione bisognerebbe modificare i trattati proprio sul pian economico, onde favorire nuovi investimenti. Nello stesso tempo bisognerebbe puntare ad azioni, frutto di un maggior coordinamento in ambito europeo, che rilancino lo sviluppo in modo da incrementare la fiducia nella ripresa.
E per questo che bisogna che le classi dirigenti ritornino a volare alto, dando prospettive e speranze nel futuro attraverso una politica economica sociale diversa. Cominciando a studiare e applicare modelli economici e sociali alternativi che avviino uno sviluppo economico diverso, considerando le modalità del lavoro a valenza sociale complessiva. Uscendo, così, da una logica difensiva, riproponendo come centrale il problema sociale e ripartendo all’attacco anche con obiettivi intermedi di fase ma ben definiti e caratterizzanti. Un nuovo modello di crescita economica, un forte progetto di rinnovamento che riaccenda le speranze sopite verso un progetto di reale democrazia economica del sociale e del lavoro, può realizzarsi.
Nell’Unione esistono, ancora oggi, differenze sensibili per quanto riguarda la sicurezza e la protezione sociale, la legislazione sociale, le relazioni industriali e le politiche contrattuali. Fino ad ora, non vi sono stati significativi passi in avanti da parte di tutti i principali attori comunitari. La regolazione comunitaria sui contratti a tempo determinato e part-time, le direttive sulla protezione sociale e la contrattazione collettiva stentano ad essere concrete ed influenti. Lo strumento potrebbe essere, una vecchia nostra proposta, quello di uno statuto europeo dei lavoratori che dovrebbe definire un quadro normativo comunitario, lasciando alle parti sociali attraverso la contrattazione collettiva, la definizione delle articolazioni appropriate tra i differenti livelli di negoziazione. In tal modo sarebbe soddisfatto l’equilibrio fra aspetto normativo e contrattuale e sarebbe garantita l’omogeneità nel rispetto delle diversità. Ma per poterlo fare in concreto, è necessario un forte sindacato europeo e una necessaria ed impegnata iniziativa riformista guidata ovviamente dalle forze di sinistra e non da sovranismi che pure in questi momenti sembrano prevalere in Europa. Ecco perché le elezioni saranno determinanti per ricreare condizioni in cui il progresso, lo sviluppo ed il sociale siano vincenti. Deve riproporsi quella politica riformista di cui Delors e le forze socialiste e socialdemocratiche si sono fatte promotrici e che tanto bene hanno prodotto in Europa. Pensiamo anche però al grande disegno che avevano individuato come possibile i grandi padri della costruzione europea, che ben era individuato nel Manifesto di Ventotene.
Il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro di 320 milioni di cittadini era uno degli obiettivi che voleva perseguire il Trattato di Roma del 1957. La circolazione di merci, persone, servizi e capitali, doveva dare nuovo stimolo alla crescita economica con auspicabili effetti positivi anche sul versante dell’occupazione. Purtroppo la grande crisi economica per effetto della finanziarizzazione dell’economia e la politica di austerity europea hanno inciso negativamente sia sulle condizioni di vita e di lavoro dei cittadini dell’Unione sia su tutta l’economia. E tutto questo in un quadro di nuovi squilibri, dovuti in gran parte alle nuove politiche conservatrici che hanno accentuato le divisioni sociali, inficiando i livelli dello stato sociale e i tradizionali principi di solidarietà, senza ridurre peraltro la disoccupazione.
L’Europa può avere voce in capitolo sul grande scenario della politica e dell’economia mondiale producendo riformismo, sviluppo, benessere e occupazione, non emarginazione e povertà come avvenuto in tutti questi anni con la politica di austerity. L’obiettivo è esaltare contemporaneamente quei valori di libertà che sono propri dell’Europa e quei principi di solidarietà che possono contrastare e correggere le spinte egoistiche e impedire che la povertà venga vista come uno scomodo fardello da occultare più che come una questione da risolvere.
Dal punto di vista istituzionale ed economico non vi può essere progresso sociale senza progresso economico e, inversamente, lo sviluppo economico non decolla senza coesione sociale. Dal punto di vista istituzionale è necessario apportare modifiche ai Trattati per dotare la politica di quegli strumenti giuridici in grado di permettere una svolta nelle scelte di programmazione economica e soprattutto far sì che i cittadini possano eleggere un Governo dell’Unione Europea. Diversamente la troppa distanza che esiste fra chi decide e chi subisce, continuerà a far percepire quelle stesse decisioni, prese da organismi non eletti, non democratiche perché non partecipate.
L’Unione se vuole uscire da questa sfiducia che ha prodotto sovranismo e, secondo alcuni, la fine di un sogno, deve dotarsi di un sistema istituzionale realmente democratico ed in grado di assumersi quelle responsabilità necessarie, autonome e sovrannazionali, che le spettano con un governo eletto. Ciò permetterà di elaborare politiche economiche alternative a quelle dominanti e superare gli ostacoli posti dagli egoismi nazionali che spesso hanno frenato l’iniziativa del progetto europeo. Non si può pensare che l’Europa sia solo economica e monetaria senza quella politica. Per far questo bisognerà rivedere alcuni aspetti dei Trattati riguardanti soprattutto le istituzioni europee e gli obiettivi verso i quali le istituzioni, a partire dal Parlamento, rafforzato nei suoi poteri, ma anche quel Governo eletto dai cittadini, devono muoversi per far fronte alle nuove esigenze e alle nuove responsabilità di cui l’Europa dovrà farsi carico.
Un altro problema legato a questi rigurgiti di estrema destra che stanno nascendo qua e là è quello del flusso migratorio che sta germinando pericolose pianticelle che diffondono le spore del razzismo. Ma la questione non ha solo un risvolto umano è essenzialmente un problema politico. No c’è dubbio che esiste una necessità di regolarizzare questo afflusso disordinato e impetuoso, ma nella sostanza esso è ineliminabile, almeno nel breve o forse nel medio periodo. Va gestito a livello di Europa e non di singoli Stati come avvenuto fin oggi. Non si possono chiudere le frontiere o impedire che essi sbarchino oppure, ancora, ergere muri. Il fenomeno va affrontato e soprattutto governato. Parlare oggi di riformismo e di moderno sindacalismo in un contesto europeo, deve significare anche rifiutare questa linea di tendenza alla ghettizzazione e all’abbandono, puntando ad un’Europa pluriculturale e plurirazziale, come quella del resto che sta crescendo sotto i nostri occhi. L’Europa non può chiudersi in sé stessa, gelosa delle sue prerogative e dei suoi privilegi, disposta magari ad accogliere alcune istanze sociali “interne” per generosità o opportunità, ma scarsamente sensibile alle situazioni di crisi e di degrado che travagliano tanta parte del mondo. Oppure può diventare un’area integrata ma aperta, consapevole che il mondo è uno solo e che non solo un’istanza etica di solidarietà ma anche una considerazione di realismo politico, suggeriscono di non chiudere gli occhi di fronte allo squilibrio crescente fra ricchi e poveri, che sono, quest’ultimi, di gran unga i più numerosi. Un uomo di grande statura politica e morale come Riccardo Lombardi non si stancava mai di sottolineare l’improponibilità etica ma anche economica di un mondo a due stadi, con un’isola di ricchezza galleggiante in un mare di miseria e di degrado. È un monito da tener presente. Anche qui c’è un vasto campo d’azione e di lotta per la sinistra europea e per il sindacato europeo.
Venendo quindi al sindacato, la Confederazione Europea dei Sindacati deve abbandonare una pericolosa tendenza al “quieto vivere”, alla gestione un po’ burocratica dei rapporti con le organizzazioni sindacali nazionali aderenti, per rilanciare con forza le grandi idee che il nuovo corso con Luca Visentini ha portato avanti e che riproporrà al congresso. Si delineano, infatti, dai documenti congressuali segnali significativi di questa consapevolezza a partire dalle problematiche sociali alla contrattazione, che tuttavia dovranno consolidarsi e approvarsi.
Parlare di Ces significa, ovviamente, parlare delle convergenti responsabilità delle organizzazioni aderenti, soprattutto le più forti e prestigiose, sarebbe troppo facile, troppo comodo, limitarsi ad auspicare un maggior dinamismo del segretariato di Bruxelles.
Ci sembra abbastanza velleitario parlare di un ruolo più incisivo, determinato e forte della Ces, se i portatori naturali di questo messaggio, i sindacati aderenti, marciano poi ciascuno in ordine sparso, ciascuno continuando a comportarsi come se le vecchie frontiere statali persistessero immutate. Balza prepotentemente alla ribalta cioè il tema delle deleghe di sovranità da accordare al sindacato europeo, onde consentirgli di affrontare pezzi crescenti di contrattazione collettiva. Non è il caso di dilungarsi troppo su questioni che non hanno certo il fascino delle novità: cose da mettere in moto piuttosto che da discutere ogni volta partendo da zero. Ciò che ci sembra indubbio è che il sindacalismo europeo debba fare un grande salto di qualità. Questo congresso potrà farlo se vissuto da tutti i protagonisti con lo stesso obiettivo!
Segretario, nel mese di aprile il Governo ha varato il Def. Non sembra che in quel documento trovino adeguato spazio le rivendicazioni di Cgil, Cisl, Uil. Cosa fare per sottolineare le richieste sindacali?
Noi vogliamo confrontarci con il Governo per chiedere che nel Def siano postate le risorse necessarie alla riduzione delle tasse per lavoratori dipendenti e pensionati, all’adeguamento per le pensioni, alla realizzazione delle infrastrutture, al rinnovo dei contratti dei dipendenti del pubblico impiego. Non ci sono le risorse? Si intervenga sull’evasione fiscale, ce n’è tanta da recuperare. Peraltro per la ripresa economica del nostro Paese, è chiaro ormai che bisogna restituire potere d’acquisto ai lavoratori dipendenti e ai pensionati: lo sostiene persino Confindustria. Se tutto questo non ci sarà, proseguiremo la nostra mobilitazione.
Cosa dovrebbe fare il Governo per evitare questa mobilitazione?
Lo ribadisco: se vogliono evitare che si arrivi a un eccesso di mobilitazione, con conseguenti ulteriori danni per il Paese, il Governo ci deve convocare per un confronto. Noi non vogliamo dichiarare guerra a nessuno; abbiamo semplicemente presentato una piattaforma e, sulla base del nostro progetto, vorremmo discutere con il Governo per uscire dalla crisi.
Intanto, però, c’è già un lungo elenco di iniziative di categoria programmate per i prossimi due mesi…
Certo, perché ogni singolo settore vuole mettere in evidenza le specifiche necessità e le proprie proposte per uscire dalla crisi. Le Confederazioni condividono e sostengono questo percorso che va dal pubblico impiego ai metalmeccanici, dai pensionati al settore agroalimentare, fino alla grande manifestazione per il Sud che si terrà il 22 giugno a Reggio Calabria. Noi chiediamo provvedimenti che puntino allo sviluppo del Paese perché sino a quando il Pil non supererà il 2% non avremo le risorse per pagare il debito né per rilanciare l’economia. E in questo quadro, lo ribadisco, non è chiaro quali siano gli obiettivi del Def. Cosa intendono fare sul capitolo delle tasse? Pensano davvero che si possano eliminare le detrazioni? Noi vorremmo discutere di questi argomenti con il Governo per una vera ed efficace riforma fiscale. Non ci stancheremo mai di ripeterlo: bisogna innanzitutto ridurre le tasse ai lavoratori dipendenti, i cui salari sono più bassi della media europea mentre il costo del lavoro è più alto, e ai pensionati, che pagano il doppio delle tasse versate mediamente dai pensionati in Europa. Servono, inoltre, risorse per rinnovare i contratti nel pubblico impiego, per adeguare le pensioni e per rilanciare l’economia, così da evitare che i giovani vadano via dal nostro Paese.
Intanto le categorie della scuola hanno firmato un’intesa con il Governo che dovrebbe spianare la strada al rinnovo del contratto di quel settore. E così lo sciopero già proclamato è stato revocato. Soddisfatto?
Ancora una volta la forza del dialogo e della contrattazione vince su tutto. L’intesa per la scuola, raggiunta tra il Governo e i Sindacati di categoria, ai quali va il nostro riconoscimento per l’impegno profuso, spiana la strada a risultati importanti per i lavoratori del settore. Viene riconosciuto il valore unitario, nazionale e pubblico della scuola e si pongono le premesse sia per rinnovare i contratti in modo dignitoso sia per salvaguardare i precari. Ora, bisognerà lavorare, da un lato, per mettere in pratica l’intesa raggiunta e, dall’altra, per ottenere lo stesso risultato anche per gli altri comparti del pubblico impiego.
E poi ci sono categorie come la sanità privata che attendono il rinnovo del contratto da 12 anni…
È una vergogna: i lavoratori della sanità privata sono da troppi anni senza contratto. Datori di lavoro che si rifiutano di contrattare non sono certo da portare ad esempio. Le controparti devono sempre incontrarsi con il Sindacato per rinnovare i contratti. Io, poi, sono convinto che dovremo batterci per ottenere un contratto unico nel comparto della sanità.
Cgil, Cisl e Uil e Confindustria hanno firmato l’Appello per l’Europa, rivolto ai cittadini e ai politici, per una crescita economica sostenibile e per la giustizia sociale. Come si possono sintetizzare i contenuti di questa intesa?
“Per un Paese del lavoro che vorremmo, in un’Europa del lavoro che vorremmo”. Potrebbe essere questo lo slogan per sintetizzare i contenuti dell’Appello firmato con Confindustria. Le parti sociali propongono un progetto su cui fondare la nuova Europa, perché quella disegnata dai Padri fondatori non si è realizzata. A tal proposito, noi siamo convinti che se non si fanno investimenti pubblici e privati, se non si creano le condizioni per il lavoro e per le politiche sociali, l’Europa non funzionerà.
Un tema alla ribalta della cronaca continua a essere quello del cosiddetto salario minimo. Ci sono delle proposte di legge in campo e c’è la prospettiva di un confronto con il Governo. Vuoi ricordare la posizione della Uil su questo capitolo?
Noi riteniamo che questa sia una materia da lasciare alla contrattazione tra le parti sociali che già stabilisce quali sono i minimi salariali, definiti per l’appunto da ogni singolo contratto, applicati nel nostro Paese. Basterebbe estendere questi minimi erga omnes così da poterli applicare anche a quei lavoratori che non hanno tale garanzia.
Anche innovazione e impresa 4.0 sono argomenti che suscitano proposte e dibattito. In questo quadro si è parlato anche di riduzione dell’orario di lavoro. Che ne pensi?
È da tempo che sosteniamo la necessità di ridurre l’orario di lavoro per far fronte agli effetti dell’innovazione e dell’impresa 4.0 sugli assetti occupazionali. Così come sono anni che puntiamo alla redistribuzione degli incrementi di produttività, da ottenere con il benessere lavorativo. Riteniamo, tuttavia, che questa strada debba essere percorsa, prioritariamente, facendo leva sulla contrattazione. Le parti sociali devono farsi carico di questo impegno, i Governi devono mettere a disposizione gli strumenti della fiscalità per sostenere questa strategia
L’impegno della Uil continua a essere ripagato dai brillanti risultati conseguiti sul terreno della rappresentanza. Nelle elezioni per il rinnovo delle Rsu all’Ilva di Taranto, ad esempio, la Uilm ha fatto registrare un vero e proprio record. Come giudichi questa vittoria?
Ancora una volta, da ben 26 anni a questa parte, la Uilm si conferma prima Organizzazione all’Ilva di Taranto, il più grande stabilimento italiano e il più grande impianto siderurgico europeo. Il risultato è davvero eccezionale, non solo per la sua continuità, ma anche perché maturato in un contesto di particolare difficoltà, successivo all’accordo che ha sancito il passaggio di proprietà alla Mittal e in costanza di un’irrisolta problematica ambientale su cui richiamiamo azienda e Istituzioni a intervenire in via definitiva. Peraltro, questo successo si colloca nell’ambito di un andamento positivo che le liste della Uil stanno facendo registrare un po’ in tutti i luoghi di lavoro e che conferma quanto rilevato anche da soggetti terzi, e cioè che la nostra Organizzazione gode di ottima salute.
Anche nel settore pubblico, infatti, la Uil ha ottenuto, di recente, un altro grande successo…
È proprio così. Nelle elezioni per il rinnovo del Consiglio superiore del Ministero dei Beni culturali, la Uilpa è risultata la prima Organizzazione e uno dei suoi candidati ha ottenuto il maggior numero di consensi. È un successo di cui andiamo orgogliosi perché premia l’impegno di una categoria intera in una realtà, come quella del pubblico impiego, caratterizzata da grandi difficoltà, a cominciare dal mancato rinnovo dei contratti. Questo esito positivo ci rafforza, dunque, anche in vista del confronto che chiediamo al Governo di aprire al più presto per puntare a un risultato economico in grado di valorizzare il lavoro pubblico.
Un’ultima domanda. Anche quest’anno sei stato in piazza a Milano per il 25 aprile. È un momento delicato in cui riemergono alcune manifestazioni ed espressioniinneggianti al fascismo. Perché accadono questi episodi?
Non basta celebrare, ma bisogna impegnarsi affinché quello che è successo in passato non si ripeta più: non siamo ancora immuni da questo rischio. Ecco perché come ha detto il Capo dello Stato, ci vuole un nuovo Risorgimento sulla base dei valori della Resistenza. Bisogna costruire, insieme ai giovani, una nuova democrazia, nel nostro Paese e in Europa, che sia permeata di questa cultura. Se ancora oggi, infatti, ci sono rigurgiti neo fascisti da parte di soggetti che non hanno conosciuto nulla di quel periodo, probabilmente ciò accade perché la scuola e la cultura non sono riuscite a evidenziare le negatività del Ventennio. Bisogna vigilare e diffondere i valori della democrazia e del lavoro. La libertà non deve mai essere disgiunta dal lavoro e dalla capacità di essere indipendente economicamente.