Il Fatto
È necessaria una visione strategica del Paese che vada oltre il pareggio di bilancio
di Antonio Foccillo pagina 1
Dalle parole ai fatti
Ogni anno, puntualmente, quando vengono presentati in ordine il Def, la sua nota di variazione e la legge di bilancio, siamo costretti a ripetere sempre le stesse cose. Anche quest’anno, seppur diversamente dal passato qualche passo in avanti sia nel metodo che in alcune parti di merito c’è, la nostra valutazione complessiva del testo in ingresso della prossima legge di bilancio resta ancora di insufficienza. È vero che i problemi sono tanti e le risorse da impiegare devono scontare il vaglio dell’Europa, in una situazione economica per lo più di crisi che tende ormai a uno stato perdurante. Penso alle mille crisi aziendali del settore industriale con perdite di prodotto e di occupazione; al graduale e incessante impoverimento del settore pubblico per mancanza di investimenti, per i tagli lineari, per le privatizzazioni seriali dei servizi e per il sostanziale stallo delle assunzioni; ai giovani che non trovano sbocchi lavorativi coerenti con i loro percorsi di studio e preferiscono andare all’estero; all’aumento della povertà che arriva sempre più a toccare cifre spaventose. Tutte tematiche che, a nostro parere, non vengono affrontate con la necessaria attenzione e soprattutto progettualità. In questi anni si può tranquillamente sostenere che le questioni economiche sono state affrontate mettendole sempre al primo posto dell’agenda politica. Ne abbiamo avuto conferma, anno dopo anno, ogni qualvolta si presentava lo stato dei conti pubblici attraverso il documento di programmazione finanziaria ed economica e poi attraverso l’elaborazione dei diversi provvedimenti di gestione con la presentazione della legge finanziaria.
Il Governo, di qualsiasi colore sia stato, ha sempre proposto e propinato le stesse cure e i mass-media hanno riportato una serie di titoli sull’urgenza della riduzione dei costi dello stato sociale e, in particolare, sulla necessità di tagliare su pensioni e spesa sanitaria, oltre che ridimensionare la spesa pubblica. L’Italia, infatti, da alcuni anni continua a pagare l’assenza di una politica economica orientata a promuovere e sostenere la crescita, congiuntamente ad un vero smarrimento di una propria politica industriale. I Governi hanno concentrato la loro attenzione esclusivamente al miglioramento dei conti pubblici, con scelte che hanno pesantemente penalizzato i lavoratori dipendenti, i giovani e i pensionati. La storia ci ha dimostrato che il necessario perseguimento di politiche volte al risanamento è stato fine a se stesso ed ha avuto come conseguenza quella di aggravare la recessione in atto nel nostro sistema economico e produttivo. Eppure ci troviamo sempre qui. Il limite maggiore dell’azione economica dei Governi è stato proprio quello di non sostenere sviluppo e crescita. Gli indicatori dell’economia italiana, infatti, sono sempre più negativi, nonostante le tante cure, i tanti sacrifici e le moltissime manovre imposte in questi anni, basti pensare solo a quelle del governo Amato e successivamente di tutti quelli che si sono succeduti nel tempo. Nella realtà sociale che, senza essere succube degli addomesticamenti dei mass media, ancora si interessa di politica emerge la necessità di una profonda riscrittura del Patto Sociale e dunque dell’Alleanza Costituzionale, attraverso la più ampia partecipazione dei cittadini per individuare valori, strumenti, istituzioni e legislazioni che possano essere il fondamento del nuovo sviluppo. Bisogna essere capaci di proporre “un patto per il progresso” tra soggetti autonomi, portatori di interessi diversi e con gradi diversi di responsabilità istituzionale, culturale e sociale, ma tutti uniti contro il rischio di imbarbarimento della convivenza civile.
Pur comprendendo le difficoltà che comporta stilare una legge Finanziaria, non è possibile che ad ogni presentazione che si sussegue si continui, come se nulla fosse, a mettere in discussione conquiste fondamentali che il mondo del lavoro aveva saputo costruire nel tempo. Purtroppo, ogni legge Finanziaria, si porta dietro problemi complessi che riguardano tutti i settori della nostra società. Questa volta l’emergenza a cui far fronte è stato il temuto rincaro dell’Iva e quindi la necessaria ricerca delle coperture per scongiurarla. Una prospettiva, quella dell’aumento dell’IVA, che sarebbe stata a dir poco disastrosa per i cittadini. In alternativa si sarebbe potuto vagliare una rimodulazione solo per i beni di lusso, lasciando invariata quella dei beni di prima necessità. Questo perché avrebbe consentito di destinare più risorse al cuneo fiscale, un aumento del finanziamento ai contratti pubblici ed un miglioramento della rivalutazione delle pensioni. Dato che così non è stato, per gli stessi motivi per cui è stata evitata, non si possono giustificare azioni compensative che sortiscano parimenti effetti dannosi, seppur in ambiti diversi da quelli dell’acquisto dei beni ma che comunque rispondono alle domande di stato di bisogno della comunità. Più brutalmente, con questo intendo che non si può sopperire al non incremento dell’Iva con una serie di tagli lineari ai servizi pubblici.
Noi abbiamo sempre ritenuto che in questo scenario di crisi e di difficoltà economica, prodotto del fallimento delle idee neoliberiste, bisognasse ridiscutere l’austerità che è alla base della costruzione europea dei giorni nostri, perché essa ha colpito duramente i salariati e i ceti medi e inferiori attraverso tagli degli stipendi, riduzione delle prestazioni sociali, fino all’allungamento dell’età legale per la pensione. Per completare il tutto, in nome di una fantomatica ripresa, si sono smantellati sempre più i servizi pubblici e si è privatizzato ciò che ancora non è stato privatizzato, con una soppressione massiccia di posti di lavoro (nell’istruzione, nella sanità, ecc). Così il cittadino che prima ha pagato il salvataggio dei mercati, adesso è chiamato a pagare la destabilizzazione degli Stati, che devono obbedire all’odierna parola d’ordine: “tagliare la spesa pubblica” o per meglio dire quel poco che ancora resta. Spesa pubblica significa innanzitutto scuola pubblica, università pubblica. Significa strade, centri culturali, asili, ospedali, cure mediche. Significa, in ultima analisi, redistribuzione del reddito e diminuzione della sperequazione economica; significa offrire un servizio a chi non potrebbe permetterselo; significa garantire una vita dignitosa a tutti. Insomma rinunciare a tutto questo significa tagliare il Welfare State, che è stato una delle più grandi conquiste sociali di sempre. Allora ci sembra evidente che prima il salvataggio dei mercati con i soldi pubblici e quindi a spese di tutti i cittadini che pagano le tasse, poi la riduzione, quasi l’annullamento, della spesa pubblica, soprattutto quella che qualifica il Welfare siano, in realtà, operazioni di drenaggio di risorse che dalla comunità passano agli speculatori finanziari. Questo dato dovrebbe spingere i governi ad intervenire per mitigare questa forte sperequazione economica e non tagliare le “spese pubbliche” aumentando il divario economico e sociale.
Ma al contempo buona parte dei media ha insistito, prospettando scenari apocalittici, sulla necessità del taglio dei servizi pubblici o alle pensioni. Insomma la crisi doveva essere pagata dai ceti più poveri, dagli operai, dai lavoratori, dalle casalinghe e dai pensionati. Per questo il sindacato ha presentato una sua piattaforma in cui si è affermata “la necessità che lo sviluppo del Paese sia supportato da politiche espansive e in coerenza con le linee espresse dalla Confederazione Europea dei Sindacati” secondo la quale “[è]necessario il superamento delle politiche di austerity che, in Italia come in Europa, hanno determinato profonde disuguaglianze, aumento della povertà, crescita della disoccupazione in particolare giovanile e femminile”. Ebbene seppur nei primi testi della manovra del Governo, si è intravista “una prima inversione di tendenza”, essa però non si è compiutamente tradotte nelle adeguate e necessarie risorse utili a cambiare il passo. Sull’intera manovra, difatti, il giudizio del sindacato confederale resta in gran parte negativo perché restano i problemi già noti. Le risorse sono insufficienti per la riduzione delle tasse ai lavoratori dipendenti, per il rinnovo dei contratti pubblici e sono praticamente nulle per i pensionati, che, peraltro, aspettano ancora una legge sulla non autosufficienza. Non sono stati, poi, mantenuti gli impegni assunti per la scuola e servono, inoltre, più risorse per gli investimenti pubblici e privati in infrastrutture, per il Mezzogiorno e per gli altri capitoli contenuti nella nostra piattaforma unitaria che hanno ricevuto risposte insoddisfacenti. Manca, insomma, una visione del Paese e di un disegno strategico che sia capace di ricomporre e rilanciare le politiche pubbliche finalizzate allo sviluppo sostenibile e a metter al centro il lavoro e la sua qualità, in particolare per i giovani e le donne.
Non scorgiamo, nell’attuale dettato, una politica economica in grado di contrastare l’esclusione sociale e la povertà; che determini processi redistributivi e di coesione nel Mezzogiorno; che preveda investimenti in infrastrutture materiali e sociali; che sostenga l’innovazione e le politiche industriali. La manovra traccia, invece, un percorso diverso: mancano le risorse per gli investimenti poiché si privilegia invece la spesa corrente, si preannunciano ulteriori tagli e non si segnano condizioni favorevoli al rilancio occupazionale. Il superamento delle tante diseguaglianze sociali che in questi anni si sono annidate progressivamente nel nostro Paese non si combatte se non c’è lavoro e se non si rafforzano le grandi reti pubbliche: sanità, istruzione e servizi all’infanzia e assistenza. Tutt’al contrario rispuntano i tagli lineari nei ministeri, che accompagnati dall’assenza di una solida strategia di ricambio generazionale e soprattutto di copertura delle vacanze organiche pesa non poco sull’efficienza di tutto il sistema pubblico. In questa cornice non fanno che rincarare la dose le tante vertenze del pubblico impiego, dai rinnovi alle stabilizzazioni, che rimangono inevase o a cui si continua dare risposte inadeguate e poi la partita del sistema previdenziale che richiede, ormai da anni, una revisione della legge Fornero che punti i riflettori su una platea ben più ampia di lavoratori usuranti, sulle donne e sui giovani. Non è possibile continuare a demolire un sistema che ha tutelato coesione e democrazia, per raccattare qualche miliardo a fine anno. Si rischia di risparmiare all’inizio per dover poi ritrovarsi senza un capitale, umano e strutturale, fondamentale per il futuro democratico del Paese.
Infatti, se venisse meno il sistema pubblico, i cittadini sarebbero penalizzati in maniera differenziata e la fascia più debole, per disponibilità economica, localizzazione geografica o per qualsiasi altra variabile, sarebbe quella colpita duramente. Si tornerebbe, rapidamente, a un passato remoto, fatto di ingiustizia e discriminazione, che non potrebbe comunque essere accettato da una società che ha già conosciuto livelli qualitativamente più soddisfacenti di tenore di vita. Se non altro, come fatto presente in premessa, riscontriamo sicuramente un passo in avanti quanto meno nel metodo da parte del nuovo Esecutivo, dato che la nostra interlocuzione continua ad esser intensa. Le nostre rivendicazioni saranno riproposte sia nel confronto con il governo e sia nelle audizioni in Parlamento, con l’auspicio che si comprenda la necessità di ridefinire fin da subito una visione strategica diversa del Paese che vada oltre il pareggio di bilancio.