Il Fatto
Autonomia differenziata: tutelare i diritti di cittadinanza
di Antonio Foccillo pagina 1
Ripartiamo dal sud per unire il Paese
In un recente Consiglio dei Ministri si è riaffrontato il tema dell’autonomia differenziata da approvare, riproponendo una questione che diventa sempre più intricata e soprattutto nebulosa e segreta nei suoi contenuti definitivi. Tanto è vero che la Corte dei Conti con il Procuratore Generale, Alberto Avoli, ha denunciato che: “assai deleteri sarebbero gli effetti delle autonomie trainanti se essi finissero per far crescere solo alcune regioni, chiuse in una visione territoriale puramente localistica, fra l’altro a lungo andare perdente in un contesto europeo e mondiale sempre più incentrati su aggregazioni trasversali, economiche, finanziarie e anche sociali e culturali1”. Mentre l’Università di Napoli ha sostenuto: “Il percorso intrapreso rivela la dirompente radicalità delle misure proposte, incentrate sul massiccio trasferimento di competenze dello Stato alle Regioni del Nord… Il disegno, assai mal celato, è quello di drenare verso i territori del Nord – e verso gli apparati politico-istituzionali in essi operanti – la quasi totalità delle risorse provenienti dalla fiscalità generale…2”.
Per noi della Uil che veniamo dalla cultura laica e socialista sostenere il decentramento di alcune funzioni non ha mai preoccupato anzi abbiamo ritenuto essenziale permetterlo per avvicinare le funzioni statali ai cittadini nei vari territori. Questa autonomia, tuttavia, sarebbe condivisa maggiormente da noi se si affermasse nel rispetto degli artt. 116, 117 e 119 della Costituzione, perché solo così facendo avverrebbe negli ambiti di una garanzia per tutti, seppur con qualche margine di ambiguità sicuramente da specificare. L’esperienza di mezzo secolo di ordinamento regionale dimostra che il sistema non è perfetto anzi avrebbe bisogno certamente di modifiche soprattutto nel funzionamento dello Stato. Se non lo si fa, cambiando completamente l’organizzazione, il finanziamento e la struttura della pubblica amministrazione, mantenendo però una regia centrale, non si potrà continuare ad assicurare a tutti le garanzie costituzionali. I principi di giustizia, uguaglianza e solidarietà, il diritto al lavoro, la tutela delle fasce sociali più deboli rischiano di essere considerati ormai superati dalle nuove forze politiche. Da più di dieci anni è in corso in Italia, come in tutto il mondo, un processo di trasformazione e redistribuzione della ricchezza e del potere politico ed economico che ha reso incerte quelle prospettive di consolidamento e allargamento della democrazia e di quei diritti fondamentali dell’uomo che erano divenuti, dopo la seconda guerra mondiale, le basi di ogni società civile e moderna. In questo contesto di crescente instabilità sociale, si è consumata una gigantesca ristrutturazione industriale che, mentre accelera il cambiamento, contemporaneamente introduce, accanto ai vecchi irrisolti conflitti socioeconomici, nuovi motivi di contrasto. Gli effetti della crisi politico-economica, che si trascina da anni, sommati all’incontrastata ripresa di idee conservatrici e liberiste, minacciano i valori e le conquiste di un lungo e faticoso processo di politica riformatrice. Queste politiche neo liberiste hanno chiesto allo stesso Stato di ritirare il suo perimetro di intervento, senza considerare che facendo così si contribuisce all’impoverimento dei cittadini. Il diritto di cittadinanza è tutelato dallo Stato e dalla garanzia che esso attraverso la Pubblica Amministrazione rappresenta su tutto il territorio. Quel modello di Welfare State contro cui quotidianamente in questi anni si sono scagliati liberisti e monetaristi, in un movimento divenuto trasversale a quasi tutti gli schieramenti politici. Come se ciò non bastasse, la proposta sull’autonomia rafforzata per far acquisire maggiore autonomia ad alcune regioni del nord rischia di vanificare ancora di più il ruolo unificante dello Stato e di produttore di benessere per tutti i cittadini, rinnegando la solidarietà e affermando l’egoismo e nello stesso tempo non riconoscendo più i diritti di cittadinanza stabiliti dalla Costituzione. Noi pensiamo che lo Stato debba mantenere, pur in un’articolazione dei poteri, un raccordo centrale sulle politiche, che si attui mediante poteri di coordinamento, controllo, riequilibrio e di supplenza in funzione di tutela e solidarietà nazionale, non abbandonando, di conseguenza, le sue funzioni costituzionalmente riconosciute.
A quest’opera di smantellamento del vecchio modello di welfare si è accompagnata un altrettanto pervasiva campagna di disfattismo nei confronti del Parlamento, delle Istituzioni e dei partiti, che ha minato la credibilità agli occhi dei cittadini delle forme di rappresentanza e di tutto quello che è pubblico. La mancata soluzione dei problemi istituzionali, dei quali si è discusso per anni, e l’inadeguatezza dei provvedimenti adottati stanno disgregando i valori sociali e la stessa credibilità dello Stato. Non si tratta di un problema di poco conto, anzi se ne parla troppo poco! Riguarda tutti noi, perché si stanno sgretolando goccia a goccia i pilastri su cui si è costruito il nostro modello di società. Come si diceva, l’Amministrazione pubblica ha sempre mutuato il suo potere dallo Stato che, in quanto tale, è per antonomasia un soggetto autoreferente. Ma se il suo ruolo si restringe e si praticano solo politiche economiche di tagli, addirittura lineari, alla P.A vengono a mancare i mezzi umani, culturali e finanziari con cui lavorare. Da tempo la Uil si è interrogata su queste problematiche considerando che nel nostro Paese si sta incrinando il fondamento stesso dello Stato di diritto. La crisi dello Stato investe ormai problemi elementari della vita collettiva. Siamo in presenza di un degrado così profondo di rapporti basilari della vita civile quali le istituzioni rappresentative, la pubblica amministrazione, il sistema politico, gli interessi sociali organizzati, per cui ogni singolo momento del tessuto connettivo socio-politico si trova ad essere coinvolto nella crisi de suo immediato interlocutore istituzionale, attraverso una progressiva cancellazione di ruolo e di rappresentanza, che lentamente, passo dopo passo, sembra mettere in discussione i principi stessi da cui ha preso origine l’esperienza della Stato repubblicano. La discussione sull’autonomia differenziata sarà ancora più deleteria nella divisione fra varie regioni e cittadini della Repubblica, nata per battere le politiche di secessione e con la conseguente legiferazione sul decentramento dei poteri con la modifica dell’art.116 della Costituzione. Quelle norme furono velocemente approvate e la stessa cosa sta avvenendo oggi per rispondere ad un limitato numero di cittadini italiani. Il cambio della struttura dello Stato ed il passaggio alle regioni di 23 funzioni nazionali dovrebbero avere una approfondita discussione, coinvolgendo tutti i cittadini italiani. È troppo importante la questione per avere voluto mantenere troppo nascosta l’eventuale soluzione. La comunità, quale quella intesa della Costituzione con i suoi valori di coesione, di solidarietà e di pari opportunità su tutto il territorio nazionale, è stata modellata assegnando una serie di funzioni allo Stato, proprio per far riconoscere tutti i consociati in quella come comunità come la propria. Il vero problema, proprio perché noi non abbiamo un approccio ideologico di rifiuto in assoluto, è infatti quello delle materie da attribuire al decentramento e quali materie invece debbono per forza essere gestite dallo Stato. Abbiamo visto cosa è successo alla sanità, dove venti regioni si sono strutturate in modo autonomo creando solo ulteriori divisioni fra regioni e territori con realtà più funzionali ed altre peggiorate. Il ché ha dato vita ad un pellegrinaggio di famiglie, che non potevano essere curate nelle strutture del mezzogiorno, verso quelle del Nord. Allo stesso modo sarebbe deleterio immaginare che la scuola, per l’importanza che nel sistema formativo della cittadinanza riveste, istituzionalizzi una sua spaccatura in regioni diverse con programmi diversi e orientamenti diversi. “Il rischio è di determinare una completa disarticolazione” dell’intero sistema istruzione “con l’indebolimento della scuola nelle regioni del mezzogiorno e dunque della speranze di emancipazione e progresso connesse al buon funzionamento dell’intera filiera formativa che lega scuola e università….” … “Né risulterebbe irreparabilmente minata l’unitarietà del diritto allo studio 3”. Per questo non accettiamo questa logica della divisione e dell’egoismo ma ci stiamo battendo per contrastare questo disegno e per rendere consapevoli tutti i cittadini dei rischi per tantissimi e dei vantaggi per pochi che già, tra l’altro, vivono in una situazione migliore rispetto agli altri. È vero che non esistono in questo momento tanti valori condivisi in base ai quali chiedere solidarietà e aggregare interessi diversi, soprattutto a causa della frammentazione delle rivendicazioni e degli egoismi soggettivi, amplificati dai nuovi modelli sociali. In mancanza di una ridefinizione delle garanzie di coesistenza delle differenze culturali e valoriali, correttamente contrapposte nella dialettica politica, difficilmente si potranno trovare convergenze che diano, alle diversità economiche sociali e politiche, il senso di una sintesi ideale che le accomuna nello Stato. Per noi, devono mantenersi nello Stato, e anzi rafforzarsi, le funzioni di indirizzo, di ordinamento, di programmazione generale e di amministrazione delle funzioni nazionali non decentrabili quali l’istruzione, la sanità, l’assistenza, etc., assegnando poi al livello periferico delle amministrazioni regionali le funzioni legislative, di programmazione e organizzazione per le competenze proprie e per quelle che lo Stato trasferisce loro.
Negli ultimi tempi si sta assistendo a una maggiore attenzione, anche mediatica, sul tema dell’autonomia differenziata, complici, tra le altre, le recenti e insistenti dichiarazioni di esponenti della Lega, sia al Governo che nelle regioni del nord, che spingono ad approvare velocemente i provvedimenti sul regionalismo differenziato, dando seguito ai procedimenti già attivi in tre Regioni da circa un anno. Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna hanno intrapreso l’iter procedurale verso la fine del 2017 e nel febbraio dello scorso anno sono arrivate a sottoscrivere (con l’allora Governo Gentiloni) tre pre-intese nelle quali si possono evidenziare molti elementi in comune. Le materie spaziano su più fronti e su materie rilevanti e d’interesse nazionale che vanno dalle politiche del lavoro fino all’istruzione o alla tutela salute, come già detto, e dell’ambiente. La grandezza del “fenomeno” la si riscontra non solo dalla portata delle materie attribuibili alle Regioni ma anche da quante Regioni ne stiano facendo richiesta. Il Ministro Stefani ha, infatti, asserito che dal suo insediamento, hanno intrapreso ufficialmente il percorso anche Liguria, Toscana, Umbria, Marche e Piemonte e se si considerano anche le Regioni che hanno anche solo dichiarato di volerlo intraprendere, si arriva alla quasi totalità. In considerazione della sua portata, è bene monitorare questo processo, visto il possibile passaggio di poteri in materie particolarmente delicate.
Il rischio concreto è che si arrivi a uno scollamento sostanziale dell’unità politica nazionale e conseguentemente del sistema Paese in materie cruciali e con la probabile conseguenza dell’accentuarsi degli squilibri tra le diverse realtà territoriali. Altro vulnus è la mancanza di ruolo del Parlamento, che dovrebbe avere il solo compito di “ratificare” o meno un testo, senza poter minimamente intervenire. Bisogna, invece, che il Parlamento pretenda di discutere e, soprattutto, emendare questa riforma. Dobbiamo vigilare sul fatto che qualsiasi sia l’ipotesi, essa non possa esser fatta fra pochi intimi ma debba, rallentando il processo, interessare l’intero Paese. Per questo, rinnovo il nostro appello a farsi promotori in ogni territorio di una discussione ampia e partecipata, per far sì che solo dopo di queste si vadano eventualmente a ratificare le intese. È essenziale rilanciare la questione per creare un’opinione pubblica consapevole, cosa che non è avvenuta fino ad oggi. La Uil sta continuando a promuovere su tutto il territorio una discussione per coinvolgere quanto più possibile la cittadinanza, non facendone una battaglia ideologica ma ribadendo però che, comunque vadano le cose, i principi di solidarietà, coesione e di unità dello Stato vanno sempre fermamente salvaguardati.
1Relazione Annuale del Procuratore Generale della Corte dei Conti.
2Università di Napoli: “Contro questo regionalismo differenziato per un sistema universitario equo ed efficiente.
3Università di Napoli: “Contro questo regionalismo differenziato per un sistema universitario equo ed efficiente.
Segretario, quello di giugno è stato il mese più denso di grandi iniziativesindacali nazionali: praticamente, una a settimana. Si è chiuso così il lungo ciclo di mobilitazione, a sostegno della piattaforma sindacale di Cgil, Cisl, Uil, iniziato con la manifestazione del 9 febbraio, che ha coinvolto la stragrande maggioranza delle categorie e delle realtà territoriali. Andiamo in ordine cronologico e cominciamo dalla manifestazione dei pensionati dell’1 giugno: Piazza San Giovanni invasa dalle “pantere grigie”. Come è andata?
E' andata molto bene. Abbiamo manifestato perché i pensionati non possono essere il bancomat dal Paese: 3,6 miliardi in meno, in tre anni, per il sistema previdenziale nel suo insieme sono una cifra enorme. Noi chiediamo, invece, che siano rivalutate le pensioni anche sulla base di uno specifico paniere di riferimento. Inoltre, è inaccettabile che i nostri pensionati paghino il doppio della media delle tasse pagate dagli altri pensionati in Europa. C’è, poi, l’urgenza di provvedimenti sulla non autosufficienza e, più in generale, occorre mettere in piedi un sistema per l’invecchiamento attivo: i lavori socialmente utili, ad esempio, dovrebbero essere appannaggio non dei giovani, ai quali invece vanno date certezze e stabilità occupazionale, ma degli anziani. Hanno cercato di mettere l’un contro l’altro i giovani e gli anziani ma, in realtà, entrambi scappano dal nostro Paese perché entrambi hanno difficoltà di inserimento sociale o lavorativo e redditi esigui. I pensionati non vogliono essere un peso, ma vogliono dare una mano a risolvere i problemi del Paese e noi non ci fermeremo fino a quando non ci daranno retta.
Il sabato successivo, poi, sono scesi in piazza i lavoratori del pubblico impiego. Con lo slogan “Il futuro è servizi pubblici”, hanno rivendicato il riconoscimento del valore del loro lavoro.
È una giusta rivendicazione perché i lavoratori del pubblico impiego sono l’ossatura portante del nostro Paese. Se la P.A. e i suoi servizi funzionano bene, infatti, possiamo risolvere anche i problemi generati dalla crisi economica. Bisogna, innanzitutto, rinnovare i contratti. A suo tempo, i partiti ora al Governo hanno sostenuto che gli 85 euro del precedente rinnovo erano pochi: siamo d’accordo e, dunque, per il prossimo contratto, in linea con ciò che rivendichiamo nel privato, chiederemo 200 euro di aumenti. A questo proposito, proponiamo che si stabilisca la detassazione degli aumenti contrattuali e di produttività.
E, a giugno, c’è stato anche uno sciopero, quello proclamato dai metalmeccanici, con tre manifestazione, a Milano, Firenze e Napoli. Le crisi industriali mordono il settore e le tute blu hanno chiesto certezze e prospettive. Ci sono possibilità di ripresa per il futuro?
Il Paese è fermo, l’economia è al palo e noi vorremmo fare la nostra parte per dare impulso alla ripresa. Insieme ai metalmeccanici, chiediamo salvaguardia dell’occupazione, crescita dei salari e riduzione delle tasse, investimenti e sicurezza sul lavoro: insomma, futuro per l’industria e sviluppo per il Paese.
Infine, Reggio Calabria, teatro di unagrande manifestazione per il rilancio del nostro Mezzogiorno. Qual è la strada da seguire per raggiungere questo obiettivo?
Quando abbiamo proposto di fare la manifestazione a Reggio, qualcuno ha prospettato le difficoltà logistiche con cui avremmo dovuto fare i conti per portare così tante persone in quella città. Ebbene, proprio per tale motivo abbiamo ritenuto giusto non desistere dal nostro intento. Negli ultimi 16 anni, dal Sud sono andati via 1.200.000 concittadini, di cui la metà giovani e ben 160.000 laureati: questa è la nostra principale preoccupazione, perché non possiamo regalare un così grande patrimonio agli altri Paesi. Ecco perché c’è bisogno di investimenti pubblici e privati in infrastrutture materiali e immateriali. Per rilanciare l’economia, si potrebbe cominciare dal mettere in sicurezza il territorio, che è a rischio sismico e anche idrogeologico, magari utilizzando le risorse europee che spesso restano colpevolmente inutilizzate. Non c’è altra strada: servono interventi straordinari. Ecco perché noi continuiamo a batterci affinché il Governo ascolti le nostre rivendicazioni e le nostre proposte. Siamo disponibili a discutere, ma se non ci convocano, saremo costretti a proseguire nella nostra lotta.
A Reggio Calabria, il Sindacato è tornato dopo decenni: era il 1972. Fu un evento storico. Partecipasti anche tu a quella manifestazione?
Sì, c’ero anche io. Quella fu una manifestazione a sostegno e in solidarietà dei lavoratori e dei cittadini reggini, duramente provati dai famosi “moti” e dal “boia chi molla”. Allora, come ora, c’eravamo e ci siamo. Cgil, Cisl, Uil ci sono sempre stati per difendere la democrazia dal fascismo e dalle brigate rosse, dalle mafie e dai caporalati. È inutile che ci chiedano dove eravamo e cosa facciamo: stiamo in mezzo al popolo, ai lavoratori, ai pensionati, ai giovani. Il Sindacato ha sempre avuto un ruolo importante nella Storia del Paese, a difesa della democrazia, della libertà, della legalità e del progresso.
E dopo tutte queste manifestazioni, ora, viene evocato lo sciopero generale. Che si fa?
Io gli scioperi non li minaccio: se necessario, li faccio. Alle nostre manifestazioni c’è stata una grande partecipazione: il Governo deve tenerne conto e convocarci per ascoltare le nostre ragioni, le ragioni di milioni di lavoratori, pensionati e giovani. Poi, si vedrà.
A proposito di convocazione, sulla vicenda ex Ilva, il Mise ha convocato i Sindacati per il prossimo 9 luglio. Una decisione tardiva?
Era necessario fare l’incontro subito, perché a quella data, l’azienda avrà già avviato la procedura unilaterale di cassa integrazione: non bisognava consentire all’azienda di muoversi autonomamente. Ancora una volta, una multinazionale non rispetta le regole, ma anche il Governo, così facendo, sta contribuendo a determinare questa situazione. Stiamo rischiando sia di far chiudere una grande azienda sia di regalare il mercato italiano dell’acciaio a chi continuerà a produrlo all’estero. Dunque, confrontiamoci subito per trovare, insieme, una soluzione al problema: dobbiamo stabilizzare questo sito produttivo, per ottenere sviluppo economico e occupazionale e per risanare l’ambiente.
L’Eurostat ha certificato che, purtroppo, l’Italia ha il record di neet, giovani che non lavorano né studiano. Come interpretare questo ennesimo dato negativo?
Il dato Eurostat sui cosiddetti neet è davvero preoccupante: è un record di cui avremmo fatto volentieri a meno. Non c’è più fiducia nel futuro e così il nostro Paese è destinato a una stagnazione perpetua. Per restituire speranze e opportunità concrete ai nostri giovani, bisogna creare un collegamento tra scuola e mondo del lavoro, da un lato, e servono investimenti in ricerca, innovazione e infrastrutture, dall’altro. Solo così si può creare lavoro e dare una prospettiva ai giovani.
E a proposito di lavoro, sempre a giugno, hai partecipato, a Ginevra, alla Conferenza internazionale dell’OIL, in occasione della celebrazione del centenario. Quali sono le prospettive di questo importante organismo?
Noi crediamo che debba essere rafforzato il ruolo dell’OIL perché, a 100 anni dalla sua istituzione in seno all’ONU, c’è ancora molto da fare, nel mondo, per affermare i diritti e la giustizia sociale. La globalizzazione non è stata governata e hanno finito col prevalere la finanziarizzazione dell’economia e le liberalizzazioni selvagge: c’è stato, così, un arretramento sul fronte dei diritti e delle tutele. Noi, invece vogliamo riaffermare il valore del lavoro e, insieme alla Confederazione Europea dei Sindacati, pensiamo che ciò sia possibile, a partire da una rinnovata crescita dei salari e dall’affermazione generalizzata della contrattazione, come strumento per la giustizia e la dignità nel lavoro. Peraltro, la necessità di far crescere i salari e il diritto alla contrattazione collettiva sono due tra i temi di cui ha parlato nel suo intervento, a Ginevra, lo stesso Sergio Mattarella. Il Presidente della Repubblica, ancora una volta, ha dimostrato la sua lungimiranza e la sua grande attenzione a queste tematiche, con un richiamo alla parità di opportunità e di trattamento per tutti i lavoratori, all’idea del lavoro come strumento per affermare la dignità della persona, alla necessità di attuare le Convenzioni sui lavoratori migranti: tutte considerazioni che condividiamo appieno. In particolare in Italia, poi, lo ribadisco, noi chiediamo una riduzione dell’enorme peso della tassazione sul lavoro dipendente, oltreché sulle pensioni, per rientrare quantomeno nella media europea. In occasione di un evento internazionale così importante abbiamo ribadito queste nostre rivendicazioni, determinati a farle valere per lo sviluppo del nostro Paese e per un futuro del lavoro migliore e più giusto in tutto il mondo.
Un’ultima domanda. Sempre a giugno, si sono celebrati i 75 anni del Patto di Roma. Cosa ci insegna, oggi, quell’evento e cosa fare per rinnovare quel patto unitario?
Il Patto di Roma segnò l’inizio del Sindacato moderno. Fu firmato da Giuseppe Di Vittorio, Achille Grandi ed Emilio Canevari, ma fu Bruno Buozzi, il leader riformista del sindacalismo italiano, a vergarlo con il suo sangue. Buozzi, infatti, fu trucidato dai nazisti in fuga dalla Capitale proprio il giorno prima che fosse firmato il Patto di Roma, alla cui definizione e stesura egli aveva lavorato, nei mesi precedenti, da protagonista, insieme a Di Vittorio e Grandi. Le tre anime storiche del sindacalismo italiano, messo a dura prova dal ventennio fascista, diedero vita all’esperienza del Sindacato unitario post bellico. Poi le strade si sarebbero separate. Ebbene, oggi, non esistono più le motivazioni ideologiche che, per due volte, in contesti e situazioni del tutto differenti, portarono alla rottura dell’unità, prima negli anni Cinquanta e poi negli anni Settanta. Oggi, è possibile riprovarci ancora, facendo tesoro di quelle due precedenti esperienze. Noi non pensiamo a un Sindacato unico, che non ci piace affatto, così come non ci piacciono i giornali o i partiti unici. Noi proponiamo un Sindacato unitario, con organismi decisionali unitari, costituiti sulla base degli effettivi rapporti di forza tra Cgil, Cisl, Uil e, quindi, secondo logiche non paritetiche, ma proporzionali, senza maggioranze assolute né diritti di veto. Si insedi subito, dunque, una Commissione costituente dell’unità sindacale. Sarebbe il modo migliore per onorare l’impegno, il lavoro e i sacrifici dei nostri padri e per dare ancora più forza e sostanza alla difesa degli interessi e dei diritti di tutti coloro che a noi si affidano per raggiungere gli obiettivi dell’equità e dello sviluppo.