Il Fatto
La manifestazione del 9 febbraio consegna al Sindacato un’enorme responsabilità!
di Antonio Foccillo pagina 1
Febbraio 2019
Dopo la lunga fase di crisi dell’unità sindacale che ha visto le tre organizzazioni ritrarsi al proprio interno, alla ricerca di una nuova stabilità e di una nuova identità, oggi si registra una tendenza verso il recupero del rapporto unitario. Questo nuovo afflato unitario si è respirato nella manifestazione del 9 febbraio. Uil, Cgil, Cisl si sono riprese unitariamente la piazza. La presenza è stata massiccia e colorata da migliaia di bandiere, tanto da poter considerare quella giornata, un momento di grande partecipazione come da anni non si vedeva. Da tanto non si vedeva una simbiosi così forte fra il gruppo dirigente del sindacato e moltissimi partecipanti. Tutto questo sta a significare che i lavoratori non aspettavano altro che il sindacato, unitariamente, si riappropriasse finalmente del suo ruolo e della piazza. Si respirava un clima nuovo, si manifestava una convinta adesione e, soprattutto, la voglia di un nuovo protagonismo per dare un futuro diverso al Paese e contestualmente la volontà di riconquistare dignità e partecipazione.
È stato un monito anche per i detrattori del sindacato, quelli che affermano ogni giorno che è in crisi di rappresentatività. Ma dalla piazza è venuto anche un segnale di opposizione alle politiche economiche del Governo e di sostegno alla nostra piattaforma unitaria. Piattaforma che è passata in tantissime assemblee e riunioni territoriali. Questa convinta adesione alle parole d’ordine del sindacato, consegna a quest’ultimo anche un’enorme responsabilità: quella di evitare di disperdere questa nuova tensione e di battersi con continuità e persistenza per cambiare lo stato delle cose. Purtroppo, la politica per difendere il suo operato usa termini che dividono piuttosto che unificare. Oggi si dice spesso che la democrazia partecipata è in crisi e che può essere sostituita dalla democrazia diretta. Nuovi termini diventano slogan per spiegare e inculcare nelle menti un cambiamento senza radici e senza valori, il più delle volte anche distorcendone il significato. Come è il caso del Sovranismo, che erroneamente lo si è fatto derivare da un significato di Sovranità lontano da quello inteso dai nostri padri costituenti. Per sovranità etimologicamente si intende il potere/diritto di sovrano, dal latino “superanus”, colui che sta sopra. Al sovrano corrisponde il suddito, cioè chi è sottomesso da un’entità sovrana. La realtà di oggi è una fittissima rete di collegamenti, scambi e deleghe di sovranità per cui dal diritto di scegliere per sé si è passati al diritto di poter scegliere a chi cedere la propria sovranità, che nella società odierna è oltremodo spezzettata.
Ciò imporrebbe la scelta degli individui più capaci nella gestione della comunità, ricercando la migliore efficienza possibile, cosa che non sempre avviene con grave nocumento per l’intera società. È da precisare che cedere la presa di decisioni in delega non significa cedere il proprio diritto a scegliere e che la delega comporta anche il controllo del delegante sul delegato. Ciò dovrebbe caratterizzare le società che si definiscono democratiche. Invece, per le correnti sovraniste la delega alla rappresentanza deve cedere il passo a nuove e più intense forme di quella che viene definita “democrazia diretta”. Ne sono un chiarissimo esempio non solo il “voto” su una piattaforma digitale privata ma anche la prima lettura e approvazione, di questi giorni, in Parlamento del disegno di riforma costituzionale dell’art. 71, che introduce una particolare forma di iniziativa legislativa popolare “rinforzata” che può essere confermata attraverso il referendum popolare. Un altro evidente elemento di come alcune correnti politiche stiano propendendo sempre più nel delegittimare e sminuire il ruolo dell’assemblea legislativa. Insomma stiamo attraversando un vento populista, che però già recentemente i voti in Abruzzo ed in Sardegna hanno dimostrato come il cambiamento abbia bisogno di valori e condivisione, altrimenti come sono stati dati, così i cittadini se li riprendono. Tutto questo, la grande partecipazione alla manifestazione sindacale dimostra che non si è persa la speranza di poter modificare le cose. Purtroppo in Italia, a causa dell’affievolirsi del senso di solidarietà, sono venuti meno quei collanti che qualificavano la nostra comunità. Il sindacato, che ha sempre teso alla coesione sociale, deve riaffermare il proprio ruolo per tornare ad essere strumento di democrazia, di solidarietà, di emancipazione, di tutele e garanzia dei diritti, perché la sua azione è stata sempre e deve essere improntata al riconoscimento dei bisogni primari della persona e alla salvaguardia della dignità dell’individuo. È necessario modificare un sistema che ha impoverito il cittadino senza dargli la possibilità di gestire adeguatamente il proprio reddito. Con un mercato che ha invaso prepotentemente tutte le scelte economiche, il lavoro ed i suoi diritti devono uscire dalla logica difensiva e riprendere una fase di nuove tutele per riacquistare la dignità che gli compete. In periodi di difficoltà economica la parola d’ordine è sempre stata la riduzione del costo del lavoro, ignorando la scarsa capacità imprenditoriale, le diseconomie molto forti e la corruzione che significava costi più elevati in quanto costituiva un aggravio per il sistema delle imprese.
L’elevato costo del lavoro, al contrario, è stato anche il risultato del drenaggio delle necessarie risorse attraverso la tassazione di ciò che è più facile colpire, il lavoro dipendente. Un bersaglio facile rispetto ad un’azione adeguata contro l’evasione fiscale e il lavoro nero, che sono stati – secondo le cifre della Corte dei Conti – una riserva oscura non per il benessere del Paese ma per il profitto di pochi. In definitiva il lavoro è stato sacrificato in favore di altri tipi di interesse. Vi è stata in questi ultimi decenni una vera e propria rivoluzione conservatrice che ha legittimato le diseguaglianze sociali, valorizzando soprattutto le rendite, comprese le speculazioni a danno dei risparmiatori. Cosi facendo ha imposto un nuovo sistema di potere in cui si amalgamano interessi incrociati che accomunano classi politiche, finanza e grande imprenditoria. Questa nuovo sistema di potere si è ritagliato su misura regole e privilegi a proprio uso e consumo, acquisendo la facoltà di scaricare sugli altri ceti sociali i costi e le responsabilità dei propri insuccessi. Un sistema che ha rivendicato la sua irresponsabilità per il proprio operato, sostenendo che è il mercato che fa franare la borsa, è il mercato che attacca la moneta, è il mercato che impone i licenziamenti. Bisogna cambiare profondamente la realtà attuale riaffermando i diritti e le tutele soprattutto nel lavoro e del lavoro. Oggi il problema è come ricostruire una prospettiva di sviluppo che favorisca nuova occupazione vera e duratura, uno sviluppo che produca una ricchezza che sia distribuita in modo più equo e più giusto, un’amministrazione pubblica efficiente e produttiva che accompagni i processi di sviluppo. Di fronte a ciò il sindacato confederale deve uscire allo scoperto ed indicare un suo modello di società e di regole condivise, un modello di stato sociale, una partecipazione nella gestione dell’economia e delle scelte economiche e quindi, anche, di nuove relazioni partecipate a livello di azienda. In sintesi, deve ritornare a fare politica, avendo la consapevolezza di essere un soggetto rappresentativo di un vasto mondo e che in una società democratica e pluralista ogni soggetto è legittimato e accettato anche per la sua capacità propositiva che seppur partendo da interessi particolari vengono inquadrati sempre in un quadro di compatibilità generale del Paese. Deve riprendere la battaglia per riprecisare i contenuti di una società più giusta e più equa dove si salvaguardino la persona e i diritti di cittadinanza. Sono principi considerati dai più “conservatori” e “vecchi” ma proprio in quanto tali la loro efficacia è stata ampiamente sperimentata e sono quelli che hanno dato al Paese anni di benessere e garanzie, considerando ogni individuo non un suddito ma un cittadino a pieno titolo. Si tratta allora di ricostruire e rinnovare sedi pronte a decisioni politiche di portata generale. Oggi, più di ieri, vi è bisogno che prevalga la cultura laica e riformista. Una delle condizioni che ha consentito al nostro Paese di evolversi sempre più in senso moderno, sul piano sociale e civile, sta proprio nell’affermarsi della laicità dell’uomo, della sua natura di soggetto storico, indipendente dagli ordini religiosi e rituali, nella ricerca continua di una verità, frutto del dubbio e della ragione. È proprio a questi valori che il movimento sindacale deve ridare smalto ideale per programmare la sua azione con nuove strategie di ampio respiro. È un’esigenza generale, come ha dimostrato la manifestazione, quella che il sindacato accentui il suo ruolo di soggetto politico trainante, giacché la “politica” sembra aver perso voglia di confronto e di dialogo, avviluppata com’è da un sistema bipolare imperfetto che annulla il rapporto con la società civile e con le parti sociali, sterilizza le ideologie, mortifica le tensioni sociali per indirizzare tutte le sue energie verso leader che, una volta investiti dal voto elettorale ed ottenuta la guida del governo o della opposizione, divengono “centrali” e che, per rimanere tali, conculcano a loro volta le forze che li hanno prescelti, convinti di essere gli unici e diretti interlocutori di un corpo elettorale, che esiste solo virtualmente nei sondaggi.
La Uil con la sua storia di organizzazione laica, riformista, pluralista e tollerante può farsi promotrice dello spirito unitario e con un sindacato, nuovamente unito, può favorire una nuova dialettica che riaffermi anche il diritto per il cittadino e per il lavoratore di essere protagonista delle scelte, partecipando e scegliendo i suoi rappresentanti nel Parlamento, nella politica e nel sociale.