Il Fatto
La rivincita
di Antonio Foccillo pagina 1
Tessera 2018
UIL
“Fiducia nelle istituzioni e partecipazione rappresentano aspetti importanti del rapporto tra i cittadini e lo Stato. L’indagine Demos per Repubblica riporta un quadro senza particolari cambiamenti rispetto allo scorso anno. Dal disamore pubblico e dal distacco verso le istituzioni emergono segnali inquietanti per la democrazia. Almeno: per la democrazia “rappresentativa”. Oggi, quasi metà dei cittadini pensa che i partiti non servano. Che la democrazia possa farne a meno. Perché i partiti e i politici sono corrotti. Quanto e anche più che ai tempi di “Tangentopoli”. E se una larga maggioranza di italiani (62%) crede ancora che la democrazia sia preferibile a ogni altra forma di governo, si tratta comunque di una componente in calo costante. Rispetto a dieci anni fa: 10 punti in meno. Così non sorprende, ma preoccupa anche di più, che quasi 2 italiani su 3 ritengano che oggi il Paese dovrebbe essere guidato da un “uomo forte”. Un sentimento comprensibile, vista la sfiducia verso le istituzioni pubbliche e verso i soggetti politici. Eppure, a maggior ragione, inquietante. Tanto più se ci voltiamo indietro. A ripercorrere la nostra storia. A riflettere sul nostro passato. Tuttavia, questo “Paese senza” non ha perduto la speranza.¹ ”
Molte volte mi sono interrogato, su questa rivista, intorno a queste tematiche ed oggi alla luce di questo rapporto voglio riprendere alcune considerazioni.
Siamo ormai alla fine di un’importante stagione i cui processi si stanno esaurendo e che ha spalancato la soglia di una nuova fase, in cui l’avvenire, purtroppo, si presenta come una scommessa. Il futuro, quindi, non è più programmabile secondo le regole certe statuite dalla Costituzione, ma richiede di essere affrontato con modi e scelte totalmente diverse da quelli del recente passato.
Anche se un mutamento può prodursi anche in seguito a una trasformazione della sensibilità politica, in grado di estendere per esempio il terreno di applicazione dei diritti. Invocare la troppa sensibilità dei costituenti per negare diritti che – oggi – sono percepiti come vitali, giusti e indispensabili, sarebbe forse legittimo da un certo punto di vista, ma piuttosto debole dal punto di vista politico, perché una norma priva di un sostegno, in senso lato, ‘politico’, difficilmente può resistere senza trasformarsi nell’oggetto di un’insofferenza diffusa e senza essere percepita come una ‘ingiusta’ violazione di diritti fondati. In altri termini, per quanto si possa ritenere doveroso che i principi fondamentali delle Costituzioni siano preservati e rispettati, non si può affatto escludere che quei principi vengano addirittura modificati, senza che – in via ipotetica – non vi sia una transizione verso un regime non democratico che si potrebbe produrre, basta vedere la demagogia ed i populismi che stanno vincendo in tutta Europa.
E, soprattutto, non si può ipotizzare che quei principi – per quanto effettivamente ‘al di sopra’ del conflitto politico – possano completamente sottrarsi a un radicale mutamento politico, a una modificazione netta delle relazioni di potere e del contesto sociale.
La naturale reazione a queste vicende rischia innanzitutto, per estrema semplificazione, di assimilare il malcostume politico all’essenza stessa della democrazia, a cui si sommano l’insofferenza verso le autonomie, causata dagli effetti derivanti dall’assenza di controlli sulla gestione di fondi pubblici, e una indifferenza preoccupante verso i partiti, accreditando così l’idea che solo la gestione centralistica possa assicurare la virtuosità.
Weber vedeva il Potere come moralmente fondato e giuridicamente disciplinato ed individuava una tensione fra i due elementi entro la quale è costantemente destinata a muoversi la politica. In questa tensione si individuava il limite tragico della politica, dibattuta tra la fedeltà incondizionata al valore e la coscienza lucida dell’impossibilità di realizzarlo nel mondo.
Oggi la nostra classe politica in considerazione del fatto che il suo ideale politico non è conseguibile si è portata oltre queste contrapposizioni, ignorando il suo supremo scopo di un razionale ordine sociale, organizzato secondo principi morali, per cedere alla coscienza fredda e senza illusioni di una inutile ricerca del bene comune che perciò è stato sostituito con quello personale. Ciò non delegittima la funzione politica ma questa classe politica travolta nell’intrico dell’esistenza umana, stretta – come dice Ritter - da contrasti di interessi razionalmente insolubili e da quell’insufficienza morale con cui ogni essere umano sconta le conseguenze della sua misteriosa doppiezza di natura².
La politica tradizionale non è stata capace di dare una risposta concreta alle disfunzioni e alle inefficienze della nostra macchina istituzionale e politica, e soprattutto alla sfiducia drammatica dei cittadini nei confronti del sistema. Ne deriva la poca fiducia nei partiti e nel Parlamento, per i sistemi elettorali che hanno ridimensionato la sovranità popolare, e ciò mette in discussione la democrazia di una Repubblica che non crea fiducia.
Per cercare di dare una risposta a questo stato di sfiducia, innanzitutto, bisogna decidere se si ritiene di rafforzare le istituzioni indebolendo il ruolo dei partiti, come è nelle democrazie maggioritarie dove le leadership sono fortemente personalizzate e investite direttamente dal popolo, oppure rafforzare i partiti come unica difesa dello stato sociale, poiché essendo venute meno le premesse del compromesso socialdemocratico, per continuare a garantire un livello di adeguato di servizi e prestazioni pubbliche, deve intervenire la politica, e cioè i partiti. Ciò impone la fine della strategia del maggioritario, delle primarie, della personalizzazione dei leader perché indeboliscono i partiti, mentre l’idea di un partito società, dotato di una forte cultura politica va nella direzione opposta. Bisogna rivedere come fare selezione delle classi dirigenti perché non si può più usare il criterio dei pacchetti di voti come in passato, ma anche le moderne primarie scardinano il partito come organizzazione e accrescono il ruolo dei finanziatori esterni. Bisogna ripristinare metodi basati sulle capacità politiche dimostrate sul campo.
Nella crisi si è fatta strada l’idea che la via individuale al benessere non funziona più e quindi i partiti possono tornare a essere terminali di una domanda di futuro ma per farlo devono smettere di essere macchine per la carriera. In definitiva devono ritornare ad essere credibili.
La nostra idea di credibilità, però, non attiene agli eventi politici che si sostiene abbiano determinata la sfiducia. Per noi la credibilità politica è chi risulta attendibile e/o vero. Questa convinzione si collega al concetto di coerenza, cioè la conformità fra le proprie convinzioni e l’agire pratico. In sintesi, coerenza è fare ciò che si dice ed essendo coerenti si amplia la propria credibilità.
Un Governo è credibile se instaura una relazione di fiducia, onestà e sincerità con i suoi cittadini, se è in grado di far fronte ai bisogni plurimi della collettività; se è capace di stimolare uno spirito di collaborazione fra i suoi pubblici uffici, se è in grado di instaurare un dialogo costruttivo e formativo con tutte le categorie sociali.
Inoltre, siccome la credibilità di un governo cambia quotidianamente, in ragione della conferma della coerenza o meno fra quanto i cittadini percepiscono e osservano e i programmi politici dichiarati, sarebbe auspicabile un sistema informativo limpido, trasparente ed efficace che permetta uno scambio informativo efficiente.
Stiamo per avviare un’ennesima campagna elettorale per rinnovare il Parlamento e ci troviamo sommersi da un profluvio di dichiarazioni, contraddittorie, immotivate, irrealistiche, iperboliche.
Oltretutto fra i politici non c’è nessuno, che pur essendo in politica da vent’anni e magari anche da trenta, abbia l’onestà intellettuale di assumersi, almeno pro quota, qualche responsabilità del disastro, economico e morale, in cui è caduto il nostro Paese. Ogni responsabilità viene scaricata sull’avversario.
Ecco qui quella naturale reazione che porta ad assimilare il malcostume politico all’essenza stessa della democrazia, invece, la politica e quindi i partiti devono battersi per la ricerca di una nuova equità e per la sconfitta della linea neoliberista in economia. Queste devono diventare le sue battaglie, rafforzando coesione, solidarietà e pari opportunità.
Lo stesso Rapporto Demos, però, analizza anche lo stato delle altre istituzioni e fotografa, invece, la crescita solo dei sindacati confederali tra +6 (Uil e Cisl) e +8 (Cgil) punti percentuali. Sarebbe stato utile spacchettare anche Cisl e Uil perché sono organizzazioni ognuna dotato di vita propria non possono essere messe insieme nei sondaggi e confuse come se fossero un’unica realtà.
Si riapre così il dibattito sul sindacato, proprio nel periodo in cui taluni settori dell’opinione politica e pubblica continuano a considerare il sindacato “fuori moda” risulta evidente che esso rimane, a dispetto dei suoi detrattori, un soggetto essenziale in una società dove la partecipazione e la democrazia si sono appannate. È evidente quindi che, ancora una volta, è messa in gioco la funzione rappresentativa del sindacato, che necessariamente deve essere e dovrà continuare ad essere reale. È vero va trasformato il movimento sindacale perché è variato il modo dello sviluppo dell’aggregazione sociale ed esso deve aprirsi alle nuove realtà ma ciò non implica il dover abdicare alla sua funzione ideologica.
L’idealità, cioè il pensiero, la cultura e le concezioni di vita e del mondo sono parte importante del movimento sindacale in quanto attore sociale. Rinnovarsi, allora, coincide con il rinnovato compito, squisitamente politico e sociale, volto a determinare i valori, le equità e, in definitiva, la democrazia della società. Quindi se l’efficacia dell’azione sindacale passa ancora e sempre nel concorrere alla costituzione della libertà e delle eguaglianze, allora proprio su tutto ciò il sindacato deve costruire il suo impegno progettuale e strategico. In questi anni questi ultimi governi soprattutto hanno minacciato la funzione di rappresentanza del sindacato, ponendo fine alla concertazione per mettere in discussione non solo la credibilità del sindacato italiano, ma anche la sua funzione nella nuova società non più basata sul lavoro.
Dunque occorrono programmi diversi, più ampi e complessi da discutere; occorre far vivere una concezione della “coesistenza” fra esperienze di pari dignità che ancora stenta ad essere accettata; occorre ritrovare un rapporto con i giovani. Su queste basi si può dare davvero l’addio al passato e trovare nuovi assetti costruttivi da porre a confronto; oggi questo è ancora possibile, come lo stesso rapporto Demos sostiene in quanto fa intravedere che ancora c’è speranza nel futuro.
Le strategie sulle quali il sindacato confederale deve riflettere sono, prevalentemente, relative alle risposte da dare oggi ai nuovi bisogni, non dicendo solo no, sebbene in qualche occasione credo sia legittimo e necessario dire no, ma in molte altre, invece, è opportuno fare proposte, aggredire le problematiche in un’ottica autenticamente riformista che punta al progresso sulla base di valori e principi storicamente acquisiti nel patrimonio genetico del mondo del lavoro italiano: diritti e solidarietà sociale che si declinano attraverso uno stato sociale rinnovato, più efficiente e rispondente alle esigenze mutate, ma che non abbandona ed esclude nessuno, salvaguardando pari opportunità e libertà per tutti i cittadini. Deve ritornare ad essere un soggetto in grado di battersi per una società diversa in cui coesistono i diversi strati della società, in cui i diritti e le garanzie siano esigibili. Troppo tempo si è perso ed oggi va recuperata quell’anima riformista per riaffermare valori sociali che facciano andare avanti il lavoratore e che rispristino il valore del lavoro.
¹ Ilvo Diamanti - Italia, un paese senza più fiducia, ma che scommette sull’impegno – Rapporto Demos 2017
² Ritter, Il volto demoniaco del potere, tr. it. di E. Melandri, Il Mulino, Bologna 1971
Barbagallo, ci lasciamo alle spalle un 2017 impegnativo. Tanti i capitoli affrontati: dai contratti alla previdenza, dalle crisi aziendali all’occupazione. E ci troviamo nel 2018 ancora con tante questioni da risolvere. Purtroppo, abbiamo iniziato l’anno con due gravi incidenti sul lavoro: il disastro ferroviario di Pioltello e la tragedia al Lamina di Milano…
Sono tragedie che colpiscono lavoratori, operai, pendolari. Sono gli ennesimi incidenti sul lavoro che toccano tanti cittadini. In questo momento di dolore, noi esprimiamo profondo cordoglio alle famiglie delle vittime e sentimenti di vicinanza ai tanti feriti. Per entrambe le vicende, abbiamo chiesto alle autorità giudiziarie di accertare subito i fatti e di fare giustizia; alle Istituzioni, di creare le condizioni per rendere l’attività ispettiva più frequente ed efficace.
Basterebbe solo questo?
No, su questi specifici aspetti servono un piano e una regia nazionali in una logica di investimento e di messa in sicurezza per evitare che si verifichino ancora simili tragedie. È inaccettabile, infatti, che si ripetano incidenti analoghi: ora basta, occorre intervenire. Peraltro, la Uil, insieme a Cgil e Cisl, si appresta a chiedere un rafforzamento dei poteri di controllo dei rappresentanti sindacali per la sicurezza. Bisogna investire di più in questo ambito, a partire dalla formazione dei lavoratori, fondamento essenziale dell’azione di prevenzione. Le leggi ci sono, bisogna farle rispettare.
Veniamo alla stagione dei contratti nel pubblico impiego: a che punto siamo?
E’ di poche settimane fa la firma del contratto per i lavoratori del comparto sicurezza, della polizia e delle Forze armate. Si tratta di un altro importante tassello per la ricostruzione del quadro dei diritti contrattuali di cui sono stati privati, per troppi anni, milioni di lavoratori. Il rinnovo contrattuale è un diritto basilare e fondamentale, in assenza del quale viene meno la dignità del lavoro e, inoltre, non vengono redistribuite le risorse per rilanciare la domanda interna e l’economia del Paese. Senza contratti, dunque, non c’è giustizia sociale né efficienza economica.
Ne mancano altri?
Si, bisogna completare, bene e rapidamente, tutto il percorso. Restano, infatti, da firmare tutti gli altri ancora in sospeso, a cominciare da quelli della Scuola, Università e ricerca, della Sanità, degli Enti locali, dei Vigili del fuoco.
A proposito dei contratti, la trattativa per la riforma del sistema contrattuale sta mettendo a dura prova la tenuta dei rapporti unitari. Qual è la posizione della Uil?
Noi dobbiamo fare i sindacalisti e perciò dobbiamo fare gli accordi. Non ho nessuna intenzione di dare continuità alla pratica degli accordi separati, ma gli accordi vanno fatti, perché un Sindacato che non fa accordi diventa una bocciofila. Peraltro, la velocità dei cambiamenti in atto è tale che un nuovo modello contrattuale, comunque, non sarebbe destinato a una lunga durata. Ecco perché non ha senso far trascorrere così tanto tempo prima di giungere a un’intesa su questo capitolo. A tal proposito, noi dobbiamo recuperare l’unità d’azione sindacale e dobbiamo darci regole certe per poter decidere. Purtroppo, però, negli interventi di Susanna Camusso e di Annamaria Furlan ho riscontrato troppa timidezza rispetto alla necessità dell’unità sindacale. Noi dobbiamo vedere come proseguire la trattativa con Confindustria.
Hai ribadito che il 2018 dovrà essere l’anno di una grande vertenza fiscale. Può essere questo il terreno sul quale riprendere il filo del rapporto unitario?
Sicuramente. “Fisco più leggero, salari e pensioni più pesanti”: dovrà diventare una sorta di mantra perché la ripresa dell’economia nazionale passa anche per una crescita dei redditi fissi. Non è solo una questione di giustizia. In questo modo, infatti, si può garantire un aumento della domanda interna con ricadute positive sulle imprese e sull’occupazione.
La vicenda Embraco ha portato alla ribalta la questione delle multinazionali e la necessità di intervenire per evitare scelte unilaterali che si riverberino sui lavoratori e sui territori coinvolti. Come bisognerebbe intervenire?
Non possiamo continuare ad assistere allo smantellamento del nostro patrimonio industriale e occupazionale e a subire le decisioni delle multinazionali che puntano esclusivamente a massimizzare i loro profitti. Noi chiediamo che si favoriscano gli investimenti produttivi nel nostro Paese e che si creino le condizioni per attrarre capitali esteri. E’ indispensabile, però, definire anche delle regole a livello internazionale ed europeo, oltreché a livello nazionale, che sanzionino le decisioni, dalle negative conseguenze sociali, assunte unilateralmente. I partiti impegnati nella campagna elettorale facciano concrete e documentate proposte in merito e si assumano l’onere di adottare provvedimenti conseguenti: chi davvero intende occuparsi di lavoro, di diritti, di tutele e di sviluppo si cimenti su questo terreno.
Il sindacato in questo contesto cosa può fare?
Il punto è che alla riduzione dei diritti e allo strapotere delle multinazionali non si può rispondere con logiche “locali”. È necessario dare più forza al Sindacato europeo e a quello mondiale. Per sconfiggere il liberismo che impera, per evitare una sistematica riduzione dei redditi dei lavoratori e, in particolare, di quelli delle nuove leve, per restituire speranza ai giovani serve più Sindacato nel mondo.
Hai partecipato agli Stati generali delle politiche giovanili, organizzati dal Forum nazionale dei giovani. Si è parlato anche di lavoro e precarietà. Quali sono, a tal proposito, le tue preoccupazioni?
Sono molto preoccupato per l’affermazione di alcune piattaforme digitali che, spesso, offrono lavoro ai giovani, ma, di fatto, realizzano forme moderne di caporalato o di intermediazione parassitaria. Non è questo il futuro che si può riservare ai nostri giovani ai quali dico che, per guadagnare i propri spazi, devono sgomitare.
E per essere più vicina al mondo dei giovani la Uil e la Uilweb.tv in questi giorni hanno lanciato un video contest dal titolo “Job Ciak – I giovani riprendono il lavoro”…
E’ un’iniziativa con cui il Sindacato intende dare spazio e voce alle nuove generazioni su un tema centrale per la loro vita, ma anche per il futuro del Paese. L’obiettivo del contest è quello di ascoltare le proposte, le preoccupazioni e le aspettative dei giovani aprendo un canale di dialogo nelle forme e nei linguaggi propri delle giovani generazioni.
Un’ultima riflessione. Il 27 gennaio si è celebrata la giornata della memoria: che messaggio possiamo dare ai nostri giovani?
Intanto, volevo ricordare che abbiamo espresso vivo apprezzamento per la decisione del Presidente della Repubblica di nominare Liliana Segre senatrice a vita: a lei vanno le nostre sincere e affettuose felicitazioni. È un giusto riconoscimento all’impegno di una vita per la pace e la libertà, un omaggio al valore della memoria, ma è anche una concreta risposta a ogni incivile e inaccettabile rigurgito di violenza, di intolleranza e antisemitismo. La memoria degli orrori della Shoah deve essere un monito immanente. L’impegno per il dialogo e la crescita sociale ed economica, unitamente a un percorso educativo e culturale che coinvolga soprattutto i giovani, possono essere, al tempo stesso, un antidoto contro quelle storture e uno strumento per l’affermazione dei valori della vita. La Uil proseguirà nella sua azione per l’affermazione dei principi fondanti del dialogo e della civile convivenza.